Per usare la sociologia, occorre una pratica che si occupi del caso specifico, che si possa applicare a situazioni umane concrete. Che sia d’aiuto o sostegno agli attori singoli o collettivi nel superamento di crisi, per favorire il cambiamento, per conquistare delle condizioni di vita ottimali per l’auto-realizzazione e l’espressione della propria creatività. In generale, per risolvere i propri problemi esistenziali, relazionali, organizzativi, di riconoscimento. Come affermano Stephen S. Steele e Jammie Price nel loro Applied Sociology (2004), possiamo intendere la pratica sociologica come “qualsiasi uso (spesso centrato sul cliente) della prospettiva sociologica e/o dei suoi strumenti per la comprensione, per l’intervento e/o il miglioramento della vita sociale umana”.
La pratica sociologica si riferisce sia alla Sociologia Clinica sia alla Sociologia Applicata. In un saggio del 2012 dal titolo “Including sociological practice”, la sociologa clinica e mediatrice americana Jan Marie Fritz afferma che il sociologo clinico “lavora con il sistema-cliente al fine di valutare la sua situazione e superare, ridurre o eliminare i problemi attraverso una combinazione di analisi ed intervento. L’analisi clinica è la valutazione critica di credenze, comportamenti o pratiche, con un primario interesse a migliorare una situazione ritenuta problematica. L’intervento si basa su analisi continue; esso può essere inteso come una creazione di nuovi sistemi e/o il cambiamento di quelli esistenti e può concentrarsi anche su attività di prevenzione o di promozione”. Pertanto, la sociologia clinica, come afferma Everardo Minardi, nel momento in cui diagnostica un problema umano (personale e collettivo), ne avvia la soluzione mediante la co-costruzione di un’ipotesi di lavoro – modificabile, adattabile per prove ed errori – ma con quella chance in più che consiste nella partecipazione del portatore d’interesse, del portatore di disagio, di colui che intende coinvolgersi nella soluzione di un problema.
Anche la Sociologia Applicata ha degli scopi pratici che si intendono conseguire, però, prevalentemente per mezzo dell’attività di ricerca. Difatti, “il cuore della Sociologia Applicata è la ricerca sociale”, come nota Harry Perlstadt “e, nel senso più ampio del termine, essa include la ricerca valutativa, l’analisi dei bisogni, la ricerca di mercato, gli indicatori sociali e demografici. Comprenderebbe anche la ricerca sociologicamente diretta in medicina, nell’ambito della salute mentale, delle organizzazioni complesse, del lavoro, dell’educazione e delle forze armate, giusto per citarne alcuni” (“Applied Sociology”, 2007).
Sulla pratica sociologica è stato anche osservato:
“L’applicazione della conoscenza sociologica – teoria, metodi e tecniche incluse – è ciò che viene considerata pratica sociologica. Nel campo della pratica sociologica possono essere distinte due tipi di pratiche: quella clinica e quella applicata. La sociologia applicata si riferisce alla metodologia e include il modello di ricerca di problem solving, il modello di ricerca per la formulazione e l’analisi delle scelte, e il modello di ricerca della valutazione. Il sociologo applicato è un ricercatore specializzato nella produzione di informazioni utili per dare risposta a delle questioni di interesse governativo, industriale e in altri contesti pratici. Differente l’approccio della sociologia clinica il cui scopo è quello di applicare la prospettiva sociologica per facilitare il cambiamento. Il sociologo clinico è, prima di tutto, un agente del cambiamento che è immerso nel mondo sociale del suo cliente. I due approcci, quello della sociologia clinica e quello della sociologia applicata, possono però essere considerati come complementari a seconda del setting e delle situazioni” – Melodie Lehenerer, Professione Sociologo Clinico, 2018.
“La sociologia clinica ci invita a prendere in considerazione la specificità umana e in particolare la presenza irreprensibile e irriducibile della soggettività. Essa presta particolare attenzione alle dimensioni individuali, personali, psichiche, affettive ed esistenziali delle relazioni sociali. Si propone di ripristinare l’oggetto corrente della sociologia stessa che, nel corso della sua storia, è stato a poco a poco respinto, espulso e nascosto e che è la relazione tra l’essere dell’uomo e l’essere della società, secondo la bella espressione dei usarono i membri del Collège de Sociologie nel 1937. Da qui l’attenzione ai processi socio-psicologici (…). C’è una domanda chiave su cui la sociologia non può cedere: quello del primato del sociale sullo psichismo o delle relazioni sociali sull’individuo” – Vincent de Gaulejac, Le fonti della vergogna, 2008.
“La sociologia clinica è un approccio ai problemi sociali che tende a privilegiare le situazioni costituenti fonte di disagio o sofferenza per soggetti sociali determinati, dedicando loro non solo uno sforzo di analisi e comprensione, ma anche quello di facilitarne il superamento. Perciò essa unisce a una dimensione scientifica (indispensabile perché si possa parlare di sociologia, ma anche per garantire affidabilità professionale) a una funzione di intervento sociale (…). L’ipotesi di fondo è che il contributo più importante al superamento del disagio, che le scienze del comportamento (di cui fanno parte sia la sociologia che la psicologia) possano dare, è l’aiuto a mettere a fuoco i meccanismi, eventualmente perversi, di interazione fra i modelli culturali di cui sono portatori gli attori sociali coinvolti nella situazione problematica. E questo vale, al limite, anche quando tale situazione è vissuta da una sola persona, nella misura in cui questa si trovi a essere portatrice di modelli culturali in conflitto tra loro. Giacché i modelli culturali costituiscono un tipico oggetto di studio e di analisi da parte della sociologia.
In conclusione, la specificità del contributo sociologico alla gestione del disagio, che lo rende altamente consigliabile in un’epoca di grandi trasformazioni come la nostra, consiste nella duplicità del terreno su cui esso si colloca: da un lato, l’aiuto al superamento del disagio specifico sottoposto all’attenzione del sociologo clinico; dall’altro, la messa in discussione delle “ragioni” di fondo del nostro sistema complessivo, e quindi delle fonti stesse del disagio. Il sociologo clinico però, che si colloca in una prospettiva micro-sociologica, e in particolare dall’angolo di visuale degli attori coinvolti nel disagio, ha gli strumenti per meglio difendersi dal rischio dell’ideologismo generico e inconcludente che ha caratterizzato tanta parte delle scienze sociali negli scorsi decenni” – Massimo Corsale, La sociologia clinica nel sistema dei servizi. Una proposta operativa, 2013.
“Vorrei proporre alcune conclusioni leggere. La prima è questa: sono convinto che ogni operatore sia abitato da uno o più dei fantasmi descritti. È importante che egli li riconosca in sé e si interroghi sul loro potere e sugli effetti che essi hanno sugli altri e su di lui. Ma questo cosa suggerisce? Che le situazioni di lavoro sociale sono situazioni «pericolose», nelle quali si annida il male proprio laddove sembra regnare il bene, situazioni in cui la buona volontà si scontra continuamente con il desiderio di essere padrone e maestro, maestro di pensiero, padrone della vita degli altri, dei loro desideri, del loro sviluppo. È per questo che, a mio parere, per l’operatore sociale è importante attivare continuamente dei processi di autoriflessività su di sé e sul proprio lavoro. Non che così si risolvano tutti i problemi; tuttavia esercitare l’autoriflessività può indurre l’operatore a interrogarsi sui suoi affetti e sulle sue pulsioni, sul suo contro-transfert e sulla trappola in cui può attirare le persone e cadere egli stesso, diventando promotore di un cambiamento mortifero.
La seconda è che non si pensi che esistono operatori buoni e operatori cattivi. Quel che invece è essenziale è che ciascuno sia il più possibile consapevole di se stesso e degli altri (dei fantasmi di rappresentazione che ha della propria identità e di quella altrui). Ma questo non basta. È importante una presa di coscienza che in questo mestiere, per le considerazione fin qui fatte, rischieremo sempre di avere meno soddisfazioni di quante possiamo sperare o di quante ne possono avere altri mestieri. Nondimeno si tratta di un mestiere importante per la società in generale, soprattutto per questo tipo di società nella quale viviamo” – Eugène Enriquez, “I fantasmi del cambiamento. Per un operatore autoriflessivo”, 2006.
“L’intervento sociologico diventa una prospettiva chiaramente definita e percorribile, essa permette l’intervento sociologico diventa una prospettiva chiaramente definita e percorribile. Essa permette di sviluppare ed espandere la creatività sociologica in favore di un approccio professionale orientato a padroneggiare il cambiamento: socioterapia, promozione della salute, intervento di comunità, mediazione dei conflitti, la difesa dei diritti e così via sono solo alcune delle aree di azione sociologica emerse negli anni.
L’arte dell’intervento sociologico si svolge entro i confini di una visione umanistica delle relazioni sociali. La necessità per ogni sociologo di capire gli eventi sociali attraverso un particolare tipo di lenti, che gli permette di analizzare il comportamento delle persone attraverso le loro cornici culturali è quasi un assunto di senso comune: è l’eredità lasciata dalla scuola di Chicago e dalla concezione weberiana, due pilastri delle fondamenta della casa comune.
Questa breve premessa presuppone quanto meno una definizione di ciò che intendiamo per ‘sociologia’, senza la quale non è possibile a mio avviso comprendere la portata della prospettiva clinica. Nel paragrafo successivo viene fatta una importante distinzione tra sociologia ‘pura’ e sociologia ‘professionale’. Questa a sua volta si distingue in sociologia applicata e clinica” – Vincenzo Giorgino, “Per una ridefinizione del lavoro professionale in sociologia: la sociologia clinica come strumento per una trasformazione consapevole”, 1998