di Federica UCCI
Mi chiamo Federica, ho 36 anni ed ho concluso i miei studi in Sociologia ad indirizzo specialistico in Organizzazione e Relazioni Sociali nel 2010.
Devo ammettere che il mio rapporto con questa disciplina, almeno all’inizio (e con inizio intendo le scuole superiori, perché provengo dal vecchio Liceo Socio-psico-pedagogico) è stato piuttosto ambiguo. Direi che più che avvicinarmi io, è stata la Sociologia ad avvicinarsi a me e a diventare una parte integrante della mia identità professionale ad oggi. Da adolescente la consideravo semplicemente una delle materie curricolari, ero troppo affascinata dalle “colleghe” Psicologia e Pedagogia in primis, seguite dalla Filosofia e dalla Letteratura. La studiavo, per capire come osservare il comportamento umano, ignara del fatto che già da allora, stavo gettando le basi per il mio approccio preferito cioè quello sul campo, fatto di azione e, ancor di più, contaminazione. Mi sono iscritta all’università tre anni dopo aver preso il diploma, avevo iniziato a lavorare ma quando iniziai a svolgere il Servizio Civile nel lontano 2004 entrai a contatto con il Terzo Settore, così iniziai ad ascoltare il mio grillo parlante interno e secchione e decisi di valutare di tornare sui libri. Ovviamente la scelta, come un pendolo, oscillava tra Psicologia e Servizio Sociale, poi all’improvviso la mia attenzione si concentrò su un’ osservazione: ero circondata da molte di queste figure professionali, i Sociologi erano numericamente inferiori. Cosa fa il Sociologo? Mi sono ritrovata davanti un ampio ventaglio di opportunità, nonostante ancora oggi non ci siano un albo professionale e neppure un adeguato inquadramento per questa figura, penso di aver fatto bene ad ascoltare l’istinto che mi ha spinta, all’ultimo momento, ad iscrivermi al corso di Laurea in Sociologia.
Da 15 anni lavoro nel sociale, fondamentalmente mi occupo di servizi rivolti ad anziani ma cerco di dedicarmi, nei momenti di aggiornamento professionale anche ad altre tematiche, come la disabilità, il turismo sociale, la mediazione, l’inclusione e le dipendenze. Penso che anche se si sceglie un settore specifico, vuoi per necessità perché questo offre al momento il contesto, vuoi perché è di maggiore interesse in quanto ci si sente più portati, lavorare nel sociale ti fa automaticamente entrare in contatto con realtà diverse ma ben interconnesse tra loro e perciò c’è sempre bisogno di studiare, osservare e cercare di capire tutte le variabili trasversali che incontriamo sul nostro percorso di base.
Da sociologa, una delle convinzioni più radicate nella mia forma mentis è quella secondo cui, per capire realmente l’essere umano non basta concentrarsi su come funziona il suo pensiero e nemmeno su come interagisce con gli altri, è necessario capire anche come funziona il contesto che lo circonda, come lo influenza e come partecipa alla formazione della sua identità. Sulla scia della “Sociologia alternativa” di Johann Galtung, la quale preferisce la “ricerca con le persone” rispetto a quella “sulle persone”, bisogna concentrarsi su uno studio pratico della realtà sulla quale si è chiamati ad intervenire in maniera concreta per apportare un contributo migliorativo. Ovviamente, bisogna sempre seguire il faro della teoria, ma farlo in maniera “partecipata” non può che arricchire il proprio bagaglio di conoscenze e rendere più autentico il rapporto che si viene ad instaurare con le persone, perché parliamo sempre prima di persone e poi di utenti o clienti. Professionalmente parlando, quando devo organizzare le attività di un servizio o, ancor di più, risolvere qualche problematica che può sorgere strada facendo, cerco sempre di procedere parallelamente e di utilizzare le mie conoscenze relative al coordinamento e allo svolgimento delle attività secondo le pratiche consolidate dalla base teorica affiancate dall’ascolto degli utenti stessi, per rilevarne non solo le necessità ma anche le idee potenzialmente risolutive delle stesse, in modo da renderli partecipi e costruire insieme a loro una nuova realtà alternativa a quelle che riguardano la prospettiva dell’operatore sociale e del destinatario di un servizio. In questa sorta di terza dimensione è possibile creare delle reti relazionali non solo basate sul rapporto operatore-utente ma anche utente-utente e persona-ambiente. Da questo punto di vista, diventa chiarissimo come si possa ampliare sia la prospettiva da studiare teoricamente che quella da cui ricavare nuove possibilità operative, è una spirale virtuosa che si muove continuamente e può stimolare sempre i soggetti coinvolti. Forse è proprio questa la strategia che mi ha permesso di sfruttare al meglio il mio percorso di studi, perché mi permette di andare oltre il classico approccio standardizzato che spesso domina gli ambienti di lavoro ed in qualche modo distinguermi dalle altre figure professionali con le quali vengo a contatto. Il fatto che quella del Sociologo sia una professionalità ancora troppo poco “specifica”, nel senso che il suo ruolo è poco definito all’interno degli organigrammi in quanto è chiamato a svolgere mansioni anche molto differenti tra loro e dai confini poco definiti rispetto a quelle che può svolgere un normale operatore, un educatore o anche un impiegato amministrativo più che un ostacolo alla rivendicazione di una identità professionale vera e propria è una criticità che deve fare da motore al volersi migliorare sempre di più, perché nella strada che porta al nostro riconoscimento è fondamentale anche il nostro spirito di iniziativa e la nostra determinazione non solo nell’amare ciò che studiamo e facciamo, ma anche nel renderlo costantemente unico a livello operativo. E’ necessario, dunque, integrarsi con gli altri professionisti, condividere assieme a loro le strategie comuni per arricchirsi reciprocamente ed imparare a costruire quei tasselli mancanti che, come un puzzle, vanno ad integrarsi perfettamente per raggiungere un ottimo lavoro d’equipe.
Da sociologa, una delle convinzioni più radicate nella mia forma mentis è quella secondo cui, per capire realmente l’essere umano non basta concentrarsi su come funziona il suo pensiero e nemmeno su come interagisce con gli altri, è necessario capire anche come funziona il contesto che lo circonda, come lo influenza e come partecipa alla formazione della sua identità. Sulla scia della “Sociologia alternativa” di Johann Galtung, la quale preferisce la “ricerca con le persone” rispetto a quella “sulle persone”, bisogna concentrarsi su uno studio pratico della realtà sulla quale si è chiamati ad intervenire in maniera concreta per apportare un contributo migliorativo. Ovviamente, bisogna sempre seguire il faro della teoria, ma farlo in maniera “partecipata” non può che arricchire il proprio bagaglio di conoscenze e rendere più autentico il rapporto che si viene ad instaurare con le persone, perché parliamo sempre prima di persone e poi di utenti o clienti. Professionalmente parlando, quando devo organizzare le attività di un servizio o, ancor di più, risolvere qualche problematica che può sorgere strada facendo, cerco sempre di procedere parallelamente e di utilizzare le mie conoscenze relative al coordinamento e allo svolgimento delle attività secondo le pratiche consolidate dalla base teorica affiancate dall’ascolto degli utenti stessi, per rilevarne non solo le necessità ma anche le idee potenzialmente risolutive delle stesse, in modo da renderli partecipi e costruire insieme a loro una nuova realtà alternativa a quelle che riguardano la prospettiva dell’operatore sociale e del destinatario di un servizio. In questa sorta di terza dimensione è possibile creare delle reti relazionali non solo basate sul rapporto operatore-utente ma anche utente-utente e persona-ambiente. Da questo punto di vista, diventa chiarissimo come si possa ampliare sia la prospettiva da studiare teoricamente che quella da cui ricavare nuove possibilità operative, è una spirale virtuosa che si muove continuamente e può stimolare sempre i soggetti coinvolti. Forse è proprio questa la strategia che mi ha permesso di sfruttare al meglio il mio percorso di studi, perché mi permette di andare oltre il classico approccio standardizzato che spesso domina gli ambienti di lavoro ed in qualche modo distinguermi dalle altre figure professionali con le quali vengo a contatto. Il fatto che quella del Sociologo sia una professionalità ancora troppo poco “specifica”, nel senso che il suo ruolo è poco definito all’interno degli organigrammi in quanto è chiamato a svolgere mansioni anche molto differenti tra loro e dai confini poco definiti rispetto a quelle che può svolgere un normale operatore, un educatore o anche un impiegato amministrativo più che un ostacolo alla rivendicazione di una identità professionale vera e propria è una criticità che deve fare da motore al volersi migliorare sempre di più, perché nella strada che porta al nostro riconoscimento è fondamentale anche il nostro spirito di iniziativa e la nostra determinazione non solo nell’amare ciò che studiamo e facciamo, ma anche nel renderlo costantemente unico a livello operativo. E’ necessario, dunque, integrarsi con gli altri professionisti, condividere assieme a loro le strategie comuni per arricchirsi reciprocamente ed imparare a costruire quei tasselli mancanti che, come un puzzle, vanno ad integrarsi perfettamente per raggiungere un ottimo lavoro d’equipe.
Per utilizzare una locuzione appropriata, concluderei dicendo che il mio approccio con la sociologia nel corso degli anni è diventato costantemente in progress perché non si smette mai di imparare né di trovare oggetti di studio, di conseguenza non si finisce mai di accrescere la propria esperienza ed il proprio bagaglio culturale. Per questo motivo, credo che ricerca-contaminazione sia la formula in cui più mi rispecchio, penso che dal contatto talvolta anche perturbatore tra diverse variabili all’interno di un fenomeno sociale possano nascere degli equilibri che mai avremmo immaginato e delle soluzioni alternative in grado di permettere un approfondimento continuo ed innovativo del nostro oggetto di studio.