di Marco Omizzolo

“Che fare?”: è questa una domanda che accompagna spesso donne e uomini con uno sguardo critico, investigativo, attivo e consapevole sul mondo. Ciò vale anche per sociologi, antropologi, etnografi e molti altri ricercatori e ricercatrici che, dinnanzi alle problematiche, a volte anche molto gravi, che rilevano nella loro azione di ricerca sociale, soprattutto in territori esposti a criticità profonde e sistemiche, si interrogano su come rilevare, sul piano metodologico, quella complessità. Si interrogano però anche se, come e con chi intervenire per sviluppare le azioni utili ad individuare le possibili soluzioni alle criticità riscontrate. Attivarsi per intervenire in modo qualificato e partecipato nella realtà sociale allo scopo di superare le gravi problematiche rilevate mediante la ricerca. Una conoscenza critica che si unisce ad una coscienza consapevole del ruolo sociale del ricercatore e che non si limita a fotografare la realtà o a scomporla per analizzarla, ma interviene in essa organizzando percorsi e agenti di un cambiamento partecipato e innovativo. Una ricerca sociale che si ispira a modalità innovative, qualificate e partecipative di azione sociale che hanno una lunga e affascinante tradizione (…). D’altro canto, una delle metodologie di ricerca sociale sul campo più affascinanti, sorta in ambito antropologico, ossia l’osservazione partecipante, consente al ricercatore di entrare direttamente nella realtà sociale che intende investigare e di sviluppare delle interazioni sociali influenti con tutti i soggetti che ne fanno parte. Una sociologia, dunque, qualificata, attiva, coerente, propositiva e trasformativa. Si pensi ad esempio all’accesso delle donne al sistema educativo, ai processi di inclusione sociale ed economica dei migranti nei paesi occidentali e, in particolare, in quelli governati da forze politiche che si ispirano al sovranismo trumpiano o salviniano, alla tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo e sessuale, all’accesso all’assistenza sanitaria universale, al contrasto alle nuove forme di povertà, alle organizzazioni mafiose e alle nuove forme di schiavitù. Si potrebbe continuare a lungo citando la questione ambientale, tematica oggi di portata globale sulla quale è possibile attivare molte forze e risorse sociali, la difesa dei beni comuni, del patrimonio culturale immateriale o le azioni volte a contrastare il diffondersi e radicalizzarsi del terrorismo di varia matrice. Problematiche non secondarie, le quali sono esse stesse in primis alla ricerca, probabilmente, di un rinnovato e qualificato protagonismo da parte di cittadini e organizzazioni sociali che, soprattutto in Occidente, sembrano essere entrate in crisi nel corso degli ultimi venti anni, contribuendo all’ascesa di movimenti xenofobi, nazionalisti e negazionisti (ad esempio del climate change). Si tratta di tematiche da sempre trattate dalla sociologia sulle quali, però, si può intervenire solo sviluppando un’azione sociale matura, consapevole, attenta e determinata. Si può restare solo ricercatori dinnanzi ad un uomo che racconta di lavorare quattordici ore al giorno tutti i giorni del mese per una retribuzione massima di 300 euro? Si può solo raccogliere e pubblicare, in un saggio o su un quotidiano, la storia di una donna migrante obbligata a lavorare in alcune aziende agricole siciliane per dodici ore e poi costretta a subire ricatti e violenze sessuali? Si può restare fermi sui contenuti espressi in un focus group quando i membri dello stesso sono uomini, ad esempio braccianti indiani, co-stretti ad assumere sostanze dopanti come metanfetamine, oppio e antispastici per lavorare come schiavi nelle campagne dell’Agro Pontino (Migranti e Diritti, 2016)? La ricerca sociale deve saper approfondire, penetrare i fenomeni sociali che intende studiare, coglierne gli aspetti più diversi, raccontarli alla platea ristretta degli addetti ai lavori. Questo lavoro però può non es-sere sufficiente. La sociologia e non solo deve, infatti, anche avere la maturità e la capacità di interrogarsi, immaginare, progettare soluzioni possibili alle problematiche che incontra attraverso una metodologia capace di includere e, perciò, di rendere partecipi i soggetti protagonisti delle questioni che affronta. Una sociologia, quindi, su tre gambe. La prima è la ricerca, la seconda l’elaborazione partecipata delle soluzioni migliori ai problemi rilevati; la terza propone l’innesco di processi attivi di cambiamento partecipato. Il testo di Jan Marie Fritz, Principi fondamentali dell’intervento comunitario, è coerente con questo approccio (…); un testo che ispira la crescita della disciplina e del ricercatore al punto da consentire ad entrambi di superare ogni asfissia partecipativa ed invece di respirare a pieni polmoni l’aria dell’azione sociale, dell’impegno volto al cambiamento, capace di unire l’aspirazione alla trasformazione con la ricerca, l’approfondimento, l’analisi rigorosa e la partecipazione. Una sociologia in sostanza non solo clinica, ma anche elaborativa di una visione del mondo centrata sulle grandi ispirazioni dell’uomo, a partire dalla pace e dalla giustizia sociale. È così ad esempio che in provincia di Latina, ad appena cento chilometri da Roma, una comunità di circa trentamila indiani, (da circa trenta anni costretti a lavorare come braccianti agricoli in condizioni di grave sfruttamento lavorativo, emarginati, a volte ridotti in schiavitù, vittime in alcuni casi di tratta internazionale), con l’ausilio della ricerca sociale e delle esperienze più avanzate del sindacalismo di strada, ha saputo organizzare attività sperimentali, innovative e d’avanguardia anche sul piano metodologico, di contrasto a tali fenomeni, che hanno incluso la denuncia sindacale e sociale anche nei riguardi di importanti organizza-zioni mafiose. Un’azione di ricerca che ha sollecitato la consapevolezza di sé di una comunità migrante schiacciata dentro una nicchia occupazione, quella del bracciantato, obbligata ad accettare emarginazione, sfrutta-mento, caporalato, umiliazioni continue e gravi forme di punizione. Molti sono stati i braccianti indiani obbligati a chiamare “padrone” il loro datore di lavoro italiano, a fare tre passi indietro dinnanzi al “capo”, a subire punizioni corporali, ad accettare retribuzioni orarie che arrivavano a 50 centesimi l’ora per lavorare anche sedici ore al giorno per tutti i giorni del mese. Non è casuale se questa condizione, secondo l’osservatorio Placido Rizzotto (2018), coinvolge solo in Italia e solo in agricoltura, circa 450mila persone di cui circa 130mila vivono condizioni para schiavistiche. Secondo, invece, il rapporto Agromafie di Eurispes il relativo business criminale per il 2019 ammonta a circa 24,5 miliardi di euro. Si può solo fare ricerca “fredda” su questi temi? Si può evitare di restare coinvolti nel momento in cui si entra nella vita di un migrante schiavo che accoglie il ricercatore nella sua abitazione, spesso una baracca, e poi sviluppare una conoscenza utile solo per la saggistica? Ed è nella stessa direzione che nelle società occidentali si possono analizzare e poi sviluppare le ricorse migliori allo scopo di arginare comportamenti, tesi e approcci razzisti, violenti e discriminatori. Oppure immaginare percorsi di emancipazione delle donne in contesti di segregazione e violenza (domestica, lavorativa…) mediante un impegno strategico adeguatamente articolato e, quindi, ispirato dall’esperienza e dalla conoscenza della ricercatrice sociale. Domandarsi “che fare” dinnanzi a queste storie di vita, condizioni di lavoro, violenze, prepotenze, interessi e pratiche volte a spersonalizzare uomini e donne in ragione della loro fragilità indotta da un sistema economico e sociale autoritario e violento, significa, perciò, porsi una domanda sociologica legittima; come lo è anche immaginare, programmare, organizzare, forme di partecipazione dei braccianti indiani lungo un percorso di riscatto, rivolta, contestazione e denuncia allo scopo di superare un sistema produttivo fonda-to sullo sfruttamento e su comportamenti e interessi criminali e mafiosi. Rilevare dati, analizzare storie di vita, contestualizzare una ricerca dentro un quadro teorico preciso non è sufficiente. Dinnanzi ad un uomo a cui un “padrone” ha tentato di dare fuoco – perché si è permesso di chiedere due mesi di retribuzione a fronte degli ultimi sei mesi regolarmente non retribuiti – è legittimo indignarsi e attivarsi, insieme a quei lavoratori, per realizzare e, nel caso, forzare quel cambiamento necessario perché nessuno più venga sfruttato, emarginato o muoia di lavoro e di indifferenza. Questo genere di sociologia consentirebbe di ridare passione alla disciplina, di ricostruire il senso della sua visione riflessiva e della sua metodologia, di sviluppare un rapporto scientifico e nel contempo sentimentale con la popolazione, di sollecitare l’immaginazione sociologica, che secondo Wright Mills consiste nella capacità di riflettere su sé stessi come soggetti liberi e non vincolati da tutte le influenze sociali che condizionano inconsapevolmente ogni gesto della vita quotidiana, non solo verso la ricerca, ma anche nei riguardi della costruzione e della realizzazione del cambiamento possibile. Tra i possibili punti di riferimento di questo complesso e spesso coraggioso approccio sociologico si può ricordare Galtung, il quale, ad esempio, in uno dei suoi testi più interessanti (La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici. Il metodo Transcend, EGA, 2000) elabora non solo una ricerca, ma un manuale avente come scopo quello di costruire percorsi programmati, organizzati e partecipativi di inclusione delle parti per il superamento del conflitto. Galtung ritiene che per superare un conflitto si debba avere una visione; e la visione è, per il ricercatore, premessa e obiettivo della propria ricerca-azione che può consentire di superare scontri e violenze anche gravi. In Italia è possibile citare Danilo Dolci, non solo un educatore e pedagogo, ma anche e soprattutto un ricercatore sociale impegnato a percorrere la strada della ricerca e, nel contempo, dell’azione (ispirata alla non violenza) per stabilire, in contesti invece vocati alla violenza, la premessa per il suo superamento. Una ricerca-azione che costruisce relazioni e che comprende il lavoro complesso e straordinario di Kurt Lewin e di Margarete Susman fino ad arrivare alle varie ipotesi di organizzazione dell’intervento sociale contenuti nel libro di Jan Marie Fritz (…). Il punto, quindi, a fronte di una capacità di indagine metodologicamente fondata, non è solo come è organizzato quel dato fenomeno, ma anche come agire e con chi perché quel dato problema, più o meno evidente e strutturato, possa essere superato.

(*) Dalla Presentazione al testo di Jan Marie Fritz, Principi fondamentali dell’intervento comunitario. Una breve introduzione al lavoro con la collettività, Quaderni di Sociologia Clinica n.19, Homeless Book 2019.

PER UNA SOCIOLOGIA A TRE GAMBE

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