di Stefano Pasquetto
Sappiamo che la Sociologia Industriale abbraccia diverse appassionanti tematiche, tra le quali anche lo sviluppo di quelle arti e mestieri che interessano il mondo della moda e del design: ambiti nei quali il nostro Paese si è saputo distinguere a partire dalla prima sfilata di moda tenuta a Palazzo Pitti, in Firenze, già dai primi anni del 1950.
Al seguito di questa data, il fenomeno ha visto la nascita dei grandi stilisti italiani che con la loro creatività hanno inizialmente vestito personaggi celebri e facoltosi per poi rivolgersi ad un target meno impegnativo ma pur sempre esigente.
In questo quadro sintetico, nel 1982, complice anche la vittoria della Nazionale italiana nei mondiali di calcio in Spagna, il Made in Italy ha fatto un balzo in avanti e la concorrenza di altri paesi ha dovuto prendere le dovute precauzioni con il risultato che la moda, da fenomeno di nicchia, è passata ad essere un fenomeno di massa, sebbene con i dovuti margini. L’uomo Lacoste si anteponeva all’uomo Gucci e l’uomo Gucci all’uomo Armani e così via.
Iniziarono così a nascere quei modelli e quello stile del vestire che stimolarono nuovi investimenti che contribuirono a far crescere l’economia del settore fino a livelli molto importanti su scala mondiale.Ben presto però ci si rese conto che bisognava anche proteggere queste iniziative imprenditoriali e così le rampanti maison della moda iniziarono a depositare e a registrare marchi e modelli in un numero elevato di modalità. La Proprietà Industriale iniziò a tutelare quei valori di vitale importanza racchiusi nelle idee realizzate dagli stilisti e ben presto queste creazioni intellettuali divennero oggetto di proprietà. Proprietà industriale significò, e tutt’ora significa, avere la proprietà di una idea o di un progetto realizzato a partire da una manifestazione intellettuale.
Dopo aver introdotto il fenomeno, anche se molto sinteticamente, ecco che la figura del sociologo si mette in gioco come un esperto che osserva le varie fasi di questa realtà industriale dove entrano in scena ulteriori realtà che gravitano intorno ad essa come fanno gli anelli di Saturno.
Diritto industriale, diritto penale, diritto civile, branding, grafica, moda e design, economia, finanza, marketing, pubblicità, comunicazione, psicologia, criminologia, e magari altre specializzazioni che ora purtroppo mi sfuggono, ma che interagiscono tra loro sinergicamente,girano intorno al fenomeno della modadando il loro aiuto ogni qualvolta esso venga richiesto.
Per quanto mi riguardaho iniziato ad occuparmi di expertises ossia di competenza circa il riconoscimento di prodotti genuini o di prodotti contraffatti all’interno di uno studio legale specializzato in diritto industriale dove mio fratello Fabio era uno degli associati.
Quando ebbi occasione di visitare il “museo del falso”, chiuso purtroppo nel 2005, e di conoscere Salvatore Casillo, ordinario di Sociologia industriale e direttore del Centro Studi sul Falso dell’Università di Salerno, trovai l’ispirazione di adattare gli studi accademici nella pratica professionale che giornalmente mi vedeva impegnato a perseguire la contraffazione dei marchi.
La falsificazione dei brand interessò inizialmente il territorio campano, luogo dove la criminalità organizzata riuscì a creare una vera e propria industria del sommerso, poi con l’arrivo della grande immigrazione dalla Cina, ecco che il fenomeno si estese da sud a nord coinvolgendo una manovalanza, di maggior stampo senegalese e magrebina, alla distribuzione dei tarocchi nelle vie e nelle piazze delle grandi città italiane.
Negli anni, il mio interesse si è spostato verso una tematica diversa, che sempre riguarda il reato della contraffazione, regolato dagli artt. 473, 474 e 517 del Codice Penale, ma visto dalla parte dei giudicanti.
Diventato un perito del tribunale penale e un consulente tecnico della Procura, sono riuscito ad essere parte attiva nelle varie fasi dei reati, dal momento del sequestro al momento della decisione di condanna o assoluzione ordinata dal giudice.
Il problema che mi ponevo, e sul quale tutt’ora sto lavorando, era di capire il perché i giudici emettevano, ed emettono, sentenze tra loro diverse che in alcuni casi assolvono ed in altri condannano quando il reato è sostanzialmente lo stesso.
Mi spiego meglio, più volte mi è capitato che un dato giudice del tribunale di Roma emettesse una sentenza di condanna mentre un altro giudice, sempre del tribunale di Roma, ordinava invece una sentenza di assoluzione. In pratica cambiavano solo gli indagati ma il reato era lo stesso, stessi prodotti e stesse modalità. Dalle letture di un buon numero di motivazioni delle sentenze, mi accorsi che il giudicante seguiva più un giudizio di valore che non un giudizio di legge. Alla fine di ogni mia escussione mi viene sempre richiesto se quel dato prodotto con quel dato marchio contraffatto sia in grado di ledere la pubblica fede o di ingannare il consumatore medio.
E’ proprio in questo momento che il sociologo entra in gioco in quanto è necessario verificare se gli articoli di legge sono da ritenersi attualizzati al periodo in corso proprio come si è attualizzato il medio consumatore che a differenza di quello descritto nel 1998 dalla Corte Europea, un soggetto ragionevolmente ben informato, attento e cauto, oggi è un consumatore che legge, si informa, conosce il significato di determinati messaggi, acquista solo se con estrema convinzione, può scegliere, può contestare il difetto o la riuscita di un prodotto, può attraverso i social giudicare in positivo o in negativo una determinata qualità o un rapporto prezzo/qualità.
In breve, se il mondo va avanti e progredisce, la legge dovrebbe ben adeguarsi ai tempi che corrono (e, a tal riguardo, fondamentale sarebbe il contributo che potrebbe dare la sociologia del diritto).