Professione sociologica e contemporaneità
di Gianluca Piscitelli
(questo articolo è stato pubblicato sulla newsletter dell’ANS n.9 del 30-06-2018)
Quante volte ci siamo trovati dinanzi ad interlocutori che ci chiedevano: “ma chi è il sociologo?” e soprattutto: “Cosa fa il sociologo?”. Immagino che, come me, non pochi si siano trovati in difficoltà nel rispondere a queste domande, non perché fossimo a corto di argomenti, ma perché su un piano strettamente professionale, cioè del saper fare o dell’usare la propria conoscenza al fine di risolvere qualcosa (un problema, un disagio) o dell’offrire qualcosa (una soluzione, una competenza) oltre alla ricerca e alla sua metodologia non è che avessimo molto da proporre. Almeno qui in Italia. E a dispetto di certe, a mio avviso troppo presto dimenticate, esperienze di un Danilo Dolci o, perché no, di un Aldo Capitini.
Già all’inizio del secolo scorso, Bertrand Russell con quello stile ironico che caratterizzava il suo eloquio ed i suoi scritti, riconosceva l’approssimarsi di un tipo di società in Occidente che avrebbe marginalizzato il medievalismo per cui vale la pena vivere, ossia quell’antica concezione tramandata dalla Grecia e dal medioevo per cui è rilevante il sentire e il conoscere anziché il fare. Sul fare si sarebbe focalizzato l’interesse del cittadino a venire. Se riflettiamo bene su quanto è poi accaduto, l’esercizio di consapevolezza del filosofo, dell’eclettico studioso inglese, avrebbe dovuto essere da monito per noi sociologi per cui, prima o poi, il pregio estetico dello studioso che elabora con eleganza di pensiero e comportamento le sue teorie e produce conoscenza badando di non sporcarsi le mani con la realtà che descrive, avrebbe dovuto cedere il posto all’impegno di uno studioso che con quella stessa realtà si deve confrontare. Un confronto vissuto con la propria mente, certamente, ma anche col proprio corpo, laddove sono radicate le emozioni. E le emozioni sono importanti perché sono ciò che danno forma all’azione.
Nel nostro Paese stiamo ancora scontando, con riferimento al riconoscimento del sociologo come operatore professionale, le conseguenze dell’insegnamento di una disciplina ad opera di studiosi la cui formazione non è stata sociologica (è solo negli ultimi anni, infatti, che si stanno affacciando i primi professori ordinari laureati in Sociologia), rapiti – e lo comprendiamo bene! – da una conoscenza che affascina, perché spiega la realtà del quotidiano e nelle cui pieghe si annidano i determinismi individuali e sociali. Non vogliamo affatto mettere in discussione il pregevole lavoro di tanti prestigiosi intellettuali ma è, ormai, inconfutabile il rapporto strettissimo tra le strutture sociali tramandate su cui si fonda la Sociologia – strutture fondamentalmente antiprofessionali e che per molti versi sono un microcosmo della società italiana in generale – e la qualità della produzione scientifica stessa (a chi fosse interessato, rinvio per un approfondimento alle riflessioni di Martone, Santoro e Sciarrone). Detto in altri termini, la sociologia accademica, in maniera molto autoreferenziale, nel rifiutare qualsivoglia definizione di professionalità sociologica ha finito per far radicare nell’immaginario collettivo l’idea di una sola possibilità professionale per il sociologo: quella dell’accademico, al massimo nelle vesti “operative” del ricercatore sociale. E che farsene allora della lezione del Wright Mills de L’immaginazione sociologica che invitava allo sviluppo della disciplina a partire dall’interesse per i problemi concreti delle persone? Che ci faceva scorgere la possibilità di una consapevolezza in virtù della quale la comprensione di ciò che accade nelle persone, come punti d’intersezione della propria biografia e della storia della società, può spingere fino a riconoscersi un potere di cambiamento sociale, della stessa storia della società?
La Sociologia è stata definita figlia del mutamento. Essa è nata per rispondere agli interrogativi che si sono imposti all’attenzione dell’uomo a partire dalle grandi trasformazioni della modernità. E il processo di individualizzazione che l’ha attraversata e che si è spinto sino ai nostri giorni condiziona le nostre vite, le vite di ogni persona, in un panorama desolante in cui si è perso il senso dei legami e il valore del sostegno che da essi se ne può trarre. L’individuo che si rende conto di essersi smarrito in un vortice narcisistico, è quanto meno cosciente del proprio disorientamento. Della propria fragilità e vulnerabilità in una società di individui narcisisti come lui. In un tale contesto, la produzione di conoscenza sociologica che possa essere utilizzata dal decisore politico-amministrativo nell’interesse collettivo, come sembrava essere nelle intenzioni del progetto “riformatore” della sociologia italiana, appare insufficiente. Occorre avvicinarsi al caso singolo e con ciò adattarsi creativamente a relazionarsi con una committenza diversa, varia.
Occorre una nuova generazione di sociologi che svolgano un compito diverso ma complementare a quello dei colleghi accademici che fanno ricerca. Sociologi che, conoscendo i problemi sociali ed essendo in grado di raccogliere e organizzare delle informazioni (problem setting), utilizzino i dati quantitativi e qualitativi ponendosi nella condizione professionale di uso della conoscenza sociologica per intervenire e risolvere quegli stessi problemi sociali. Ossia per cambiare i fattori che producono isolamento, conflitti, disagi, discriminazioni, disuguaglianze, esclusione sociale, tanto per citare alcune aree problematiche. In breve, alle operazioni di problem setting devono fare riscontro azioni di problem solving, sperimentando metodi clinici e dando forza ad una Sociologia che – nella definizione che di recente ne ha dato Everardo Minardi – si applica, si trasforma e si evolve in una sociologia pratica, in una sociologia clinica.
E’ in questa direzione che si propongono i QSC – Quaderni di Sociologia Clinica, oggi finalmente scaricabili dal sito della Homeless Book. L’obiettivo principale è fare cultura professionale sociologica attraverso la formula degli short e-book per allargare, approfondire, il dibattito sul riconoscimento del sociologo come professionista del sociale e non solo. E diffondere la conoscenza delle prospettive del lavoro del sociologo, alcune del tutto nuove nel contesto italiano. L’attenzione all’utilità, all’uso e alla praticità della conoscenza sociologica che si vuole stimolare è motivata dalla necessità di approssimarsi ad un’idea di disciplina come intraprendere cognitivo, morale e relazionale allo stesso tempo, potendo giustamente rivendicare una proprio potere d’intervento sulla realtà. Professionalizzazione e riflessività possono, pertanto, ridisegnare le linee d’orizzonte di una sociologia rinnovata per:
– sperimentare anche in Italia nuovi modi di fare sociologia, nuovi modi di essere sociologi, alternativi al modello accademico. Pertanto, inaugurare un nuovo assetto disciplinare;
– analizzare il lavoro di sociologi clinici di altri Paesi che già lavorano in diversi contesti – pubblico, privato (ossia, in setting microsociologici di relazione focalizzata sul disagio di una persona) e di comunità – per far emergere degli spunti di riflessione che si pongano come promettenti tracce di lavoro e sviluppare, così, anche da noi la professione sociologica in termini di attività di sostegno al miglioramento delle vite dei singoli in particolare e della società in generale;
– cambiare il modo in cui pensiamo la Sociologia, e cioè non solo in termini macro, sistemici; occorre passare da una configurazione disciplinare intesa come insieme di scritti di interesse teorico e/o supportati dalla ricerca sociale tradizionale a qualcosa che includa la ricerca applicata, l’intervento clinico, la valutazione, la pratica. In questo modo sarà possibile che si definisca un’immagine del sociologo come un professionista a cui rivolgersi per chiedere anche
assistenza personale;
– apprezzare in ambito pubblico il lavoro del sociologo clinico che agevola il cambiamento – consentendo, ad esempio, il superamento di una crisi all’interno di un’organizzazione – e che contribuisce a migliorare la vita delle persone per mezzo della ricerca-azione. Ossia un tipo di ricerca che esige il contributo di tutte le parti in gioco – come i pazienti, i loro familiari, i medici e il personale paramedico di una struttura sanitaria – lungo tutti il percorso di investigazione compresi i momenti di discussione dei risultati, del monitoraggio e della redazione del rapporto di ricerca. Il lavoro del sociologo professionista, in questo caso, coinvolgendo pazienti e professionisti di diversa specie oltre ai familiari dei portatori di disagio, fa luce su come le esperienze di panico e i relativi trattamenti terapeutici, la salute e il benessere sono influenzati dalle relazioni sociologiche, oltreché dalle risorse sociali e disposizione e dalla resilienza di ognuno;
– apprezzare in ambito privato, le capacità terapeutiche del lavoro del sociologo clinico che possono consistere nella combinazione di un’approccio al corpo (pensiamo, a tal riguardo, alla Sociologia del tocco, del contatto fisico della sociologa clinica Kathrin Goldman Schuyler) e di pratiche discorsive-riflessive (che includono il dialogo e l’espressione del disagio, gli interessi personali del cliente, le sue passioni, la sua storia lavorativa, familiare e in generale; ma anche l’ascolto a casa delle registrazioni delle sessioni terapeutiche), al fine di ampliare la coscienza di come il cliente ha registrato nel proprio corpo i modelli e le istruzioni di vita che gli sono state imposte sin dall’infanzia. Imposizione come introiezione, ossia accettazione senza destrutturazione e assimilazione, che porta all’accumulazione di stress e precarizzazione della propria salute. In questo caso, l’intervento del sociologo professionista può consentire al cliente una migliore comprensione della propria biografia e dei processi decisionali che mette in atto nei contesti informali e formali. Di come la propria particolare idea di cosa sia, ad esempio, “lavorare” ossia il modo in cui concepisce e agisce il proprio ruolo di lavoratore (professionista, dipendente, manager, ecc.) ha avuto pesanti influenze sul proprio corpo e rendere il cliente consapevole del modo in cui le relazioni sociali possono influire sulla propria salute. Da qui si aprono, allora, nuove possibilità di pianificare un cambiamento in cui la propria attività lavorativa può integrarsi in un quadro esistenziale che armonizza l’esigenza di esprimere la propria creatività e la necessità di gestire al meglio il proprio benessere fisico e mentale. Come afferma la Schuyler imparare come essere consapevoli del sé come essere in movimento, sentendo, sperimentando tale movimento a livello sia fisico sia a livelli meno tangibili, sembra essere particolarmente potente nell’abbassare la presa di quegli aspetti di condizionamento sociale che causano distress;
– apprezzare, questa volta in ambito comunitario, il lavoro del sociologo professionista che sostiene una collettività nel condizionare le istituzioni affinché si ridefiniscano condizioni di convivenza e cittadinanza più giuste, più gentili, più belle. In questo caso il lavoro del sociologo professionista è quello dell’attivista, ossia di colui che agisce “a tutto campo” (dal vegetarianismo al riscaldamento globale, dalle azioni di promozione della pace ai gruppi di consapevolezza per smettere di fumare), usando la propria immaginazione sociologica al fine di mettere in luce le connessioni tra sociologia, politica e cultura; ossia tra attivismo politico, animazione culturale e pratica sociologica, come il sociologo attivista e docente universitario della San Jose State University, Dan Brook, invita a fare. E difficile così non lasciarsi trasportare dalle suo entusiasmo quando, dal sito della scienziata sociale Zuleja Zevallos
(www.sociologyatwork.org) afferma “le connessioni sono quelle per cui ciò che accade nelle nostre vite è connesso con la politica, l’economia, la storia e i fenomeni globali. E’ un modo per mostrare alla gente come ognuno di noi è parte del meccanismo del sistema. Sono convinto che quando le persone che avvertono un disagio provano a risolvere ogni genere di problema sociale, anche se non sono in grado di risolverlo, il solo fatto di predisporsi ad affrontarlo attiva un processo che rende lo stesso problema più gestibile. Vediamo allora che la gente è meno ansiosa, meno oppressa e depressa perché sente che finalmente essa stessa è parte della soluzione e non più parte del problema proprio in conseguenza del loro coinvolgimento”. E segue constatando “la Sociologia è stata inventata non solo per apprendere delle informazioni, non solo per capire meglio il mondo, non solo per farci grandi con i nostri amici lasciando loro ad intendere che sappiamo quali sono i meccanismi del sistema…l’intera questione della Sociologia è che impariamo delle cose in modo da rendere la nostra società migliore. Cosicché possiamo riformarla, o se necessario rivoluzionarla. L’intero scopo della Sociologia è portare dei miglioramenti nella vita delle persone”.
La Sociologia, quindi, insegna a come pensare includendo in questo l’uso di modelli d’analisi e il pensiero critico per mettere insieme tutti i pezzi in cui si articola la società in cui viviamo. In tale senso, secondo Brook, non esiste un ambito in cui il sociologo non possa agire con successo. Il punto è cominciare a sperimentarsi, anche in Italia, in questi nuovi ambiti. Farci l’abitudine, perché è solo con l’abitudine che si acquisisce il coraggio del cambiamento. Il coraggio di crescere.