di Paolo Patuelli
Questa è una domanda che nel mio percorso personale a poco a poco, dagli anni ’90 dove la sociologia la studiavo, ha perso di consistenza diventando un inutile esercizio di masochismo, buono solo per alimentare rabbia e frustrazione.
La sociologia non è strumento: semplicemente prende forma (si fa strumento) nel momento in cui qualcuno prova a farsene qualcosa. Mettendone in gioco i paradigmi teorici dimostrando sul campo, nel sociale, la sua utilità.
Ho 49 anni, 20 dei quali passati come operatore in servizi sociali diversi: servizi che ho vissuto, ognuno di essi, come diversamente sociale.
La scuola, con le sue regole rigide e la sua ricchezza di opportunità perse e a volte raccolte; opportunità di diventare spazio di apprendimento e crescita, al di là dell’essere luogo di contenimento, adattamento e controllo della condotta. Nella scuola sono stato a fianco, per ruolo, ai ragazzi diversamente sociali e lì ho osservato come funzionano le istituzioni quando devono contenere perchè la legge glielo impone anche chi in quei confini non ci vorrebbe stare perchè non li capisce, non ci crede e non si fida. Nella scuola ho messo in gioco lo sguardo sociologico concentrando la mia attenzione sul legame sociale, sulla relazione tra mondi lontanissimi: il soggetto diverso e l’istituzione uguale per tutti. Negli interstizi dove emergeva la possibilità di un cambiamento dove entrambi dovevano mettersi in gioco, ho tentato di facilitare questi processi dove il mutamento era frutto di reciprocità. Dal riconoscimento alla reciprocità.
Nei servizi per le dipendenze patologiche ho incontrato il rapporto difficile tra il sociale e il sanitario, laddove sulla carta questo incontro è una necessità, una urgenza operativa più che in altri servizi. Lì ho visto il potere della medicina incarnarsi in forme organizzative concentrate a salvare equilibri fragilissimi tra paradigmi teorici molto distanti tra loro che premono per diventare azione sul campo. Il sociale, con il suo strumento clinico per eccellenza che è la relazione con l’utenza, combattere con il sanitario, dove il farmaco è un arma potentissima quando medici ed infermieri la utilizzano per confermarsi a capo di gerarchie spesso inutili e operativamente inefficaci. Il tossicomane, l’utente, che scompare a poco a poco nei tempi e nei modi burocratici del sistema confermando la sua frammentazione all’interno della quale la sostanza diventa l’unica soluzione per ricomporsi. Il SerT, un’opportunità persa che nasce da una delle leggi più innovative degli ultimi trentanni (la legge 162/90), legge disattesa nella pratica e sabotata nel suo essere avanguardia di un cambiamento possibile nell’ambito dei servizi ad alta integrazione socio-sanitaria. Nel SerT ho giocato il mio sapere sociologico confrontandomi nell’operatività con professionalità diversamente addestrate ad eseguire ordini e diversamente disposte a cambiare strategie in itinere a fronte di una utenza difficilissima e sfuggente e di riassestamenti continui dell’assetto organizzativo del servizio. Assistenti sociali della vecchia scuola poco disposti ad accettare la burocratizzazione delle loro pratiche, educatori (quello era il mio ruolo) impegnati in mediazioni improbabili per evitare che medici ed infermieri si coalizzassero nel sostenere pratiche terapeutiche la cui deriva era la psichiatrizzazione dell’utenza: questa era la quotidianità dentro il SerT. Lì il sociologo (clinico) avrebbe avuto molto da fare. Non era previsto nell’organigramma.
Poi la mediazione di comunnità. Ho lavorato lì per quattro anni, in un servizio così potenzialmente interessante se non fosse per essere stato appaltato e depotenziato in termini istituzionali. La sua esternalizzazione ne faceva un ibrido dentro le maglie dell’assessorato alla sicurezza bolognese di quegli anni (tra il 2002 e il 2007). La suo essenza era sociologicamente definita e indirizzata verso la pratica, la diagnosi dei territori (soprattutto le periferie) e l’innovazione dei servizi. La mancanza del supporto e del riconoscimento politico dentro l’istituzione, l’incapacità “manageriale” del contenitore che ne aveva acquisito l’operatività (una cooperativa sociale) a poco a poco ne ha logorato il senso e demotivato l’agire del gruppo di lavoro. Come si dice: un peccato. Lì forse ho sfiorato la possibilità di praticare una sociologia clinica, ma le cose non sono andate per il meglio. Rimane per me una palestra dove ho allenato quella parte di me che cercava un’équipe di lavoro sociologicamente orientata, cosa che tutt’ora cerco e ritengo essere il grande problema della sociologia professionale. Fare legame, uscire dal solipsismo intellettuale e leggere insieme a qualcuno le mappe del sociale per viaggiare, costruire un cammino professionale.
Degli ultimi anni di lavoro dipendente non parlo, non qui. Sono tanti ed hanno a che fare con frustrazioni e fallimenti (di cooperative sociali e di percorsi individuali per la sopravvivenza professionale). Parlano di mobbing, di porte chiuse e di luoghi lavorativi indegni e occultati alla cittadinanza per la loro funzione di scarico degli scarti dell’umanità più marginale che attraversano tutte le città metropolitane come Bologna.
Poi c’è la fine di questi vent’anni di operatività sociale senza opportunità di vestire il ruolo di sociologo, ma sempre in ogni momento orientata sociologicamente.
Ora sto provando a fare il sociologo clinico. La libera professione, la creazione di associazioni, l’impegno radiofonico sui temi che mi stanno a cuore, l’esperienza come docente a contratto in Università: una cosa più un altra, piano piano verso la costruzione di un lavoro vero.