di Antonio Sposito
Il sociologo francese Emile Durkheim affermò: “La sociologia non vale la fatica di un’ora se non servisse per migliorare la società”.[1] Questo è il nucleo costitutivo, il compito concreto della Sociologia Applicata, in particolar modo della Sociologia Clinica che ne rappresenta una delle principali emanazioni.
La società postmoderna[2] muta costantemente, di conseguenza, anche la Sociologia deve adeguare velocemente gli approcci conoscitivi e di intervento. In un momento storico in cui la gestione amministrativa neoliberista attuata da alcuni Stati occidentali – Italia compresa – ha comportato la destrutturazione del sistema simbolico-materiale del welfare state, è necessario fornire risposte in termini di Politiche Sociali formali e informali ancora più accurate.
La Sociologia Clinica è uno degli approcci che dal punto di vista teoretico e applicativo è ancora poco conosciuto, particolarmente in Italia, così come è poco conosciuta la qualificazione professionale concernente lo “Specialista in Disagio Socio-Relazionale”, ricadente in tale branca, che interessa i laureati in Scienze Sociali, Umane e Relazionali, nonché i laureati in discipline sanitarie.
Con lo “Specialista in Disagio Socio-Relazionale” – in pratica un Socioterapeuta, un “professionista dell’aiuto” – ci troviamo di fronte ad un inedito sbocco occupazionale, come libero professionista o come esperto qualificato che intende operare, o che già opera, in strutture pubbliche e private, il cui compito è proprio dare risposte atte a lenire il profondo malessere collettivo che angustia gli abitanti della società postmoderna sempre più “anomica” [3], un disagio che ha assunto nuove configurazioni coesistenti con quelle endemiche già conosciute.
A nostro avviso la funzione della Sociologia Clinica è triplice: a) sostegno a individui e gruppi per superare momenti di crisi esistenziali socio-relazionali vissuti in vari ambiti, attraverso il cambiamento dello status quo percepito; b) stimolare nei cittadini una conoscenza sociologica di base che incida sulla cappa di torpore e disinteresse che attanaglia persone appartenenti a differenti generazioni, nonché sulle ideologie politiche, religiose, economiche, culturali, che per interessi vari occultano le verità sulla realtà sociale; c) salvaguardare la Sociologia dalla sua autodissoluzione accademica.
Cosa vuol significare il termine “clinico” riferito alla Sociologia?
Gli esseri umani costituiscono quel soggetto collettivo – il demos di massa postmoderno globalizzato –che proprio a causa del tramonto delle “grandi narrazioni”, che in passato hanno fornito i riferimenti socio-culturali del vivere in comune, sono in preda ad una “crisi della presenza” e di “senso”[4] che va compresa attraverso un approccio “clinico” sociologico e interdisciplinare.
Il “metodo clinico”, non esclusivamente di pertinenza medica, può essere applicato anche a manifestazioni “sociopatologiche”[5] (da non confondere con le “sociopatie” individuali di tipo psichiatrico)di competenza dei sociologi. Il “metodo clinico” utilizzato in Sociologia non è rigorosamente oggettivo come quello empirico-sperimentale, motivo principale per cui in molti ambiti accademici – ancora imbevuti unicamente di “macrosociologia” – è ritenuto poco affidabile. La Sociologia utilizzando il “metodo clinico” identifica la natura, l’entità e il decorso dei disagi derivanti dalla dimensione socio-relazionale quotidiana complessiva o da dimensioni esistenziali specifiche, indicando le modalità di trattamento “terapeutico” più appropriate per individui e gruppi. La Sociologia Clinica procura, inoltre, informazioni quali-quantitative difficili da ottenere con altri procedimenti, perché integra le singolarità dei casi di specie con le caratteristiche delle strutture sociali in cui si manifestano, ciò consente una maggiore comprensione e “contestualizzazione” del disagio.
Proprio la capacità di allargare lo zoom sul disagio contraddistingue l’approccio terapeutico sociologico che avversa gli “psicologismi”[6] così come i “sociologismi” –l’eccesso opposto – che, nell’esasperare l’importanza dei fattori di contesto, collettivizzano e deresponsabilizzano gli individui riducendoli a dei meri prodotti sociali come fossero automi fuoriusciti da una catena di montaggio. In sostanza, ciò che va compreso e che non esiste una società senza individui né individui senza società, da tale interazione dialettica multidimensionale, incessante, proviene anche il disagio correlato configurabile ad ampio spettro.
Il buon medico sa che l’approccio nei confronti di un malato implica, in primis, l’”ascolto” senza imporre “cure” dall’alto, accompagnando quest’ultimo alla comprensione attraverso la conoscenza della propria patologia (insight)[7]. In senso traslato, anche il compito del Sociologo Clinico, nella fattispecie dello “Specialista in Disagio Socio-Relazionale”, è procurare nei suoi assistiti, attraverso interventi mirati, un “insight sociologico”, ossia, la consapevolezza del malessere relazionale provato. Egli, ascolta ponendo interrogativi e ricercando risposte condivise, fornisce alle persone la capacità di lettura critica delle fenomenologie della vita quotidiana in cui sono immerse. Anche in questo caso l’obiettivo è triplice: terapeutico, formativo, educativo pedagogico/andragogico.
Perché la Sociologia Clinica può salvaguardare la scienza sociologica dalla sua autodissoluzione accademica?
Storicamente la Sociologia entra nelle università a Chicago nel 1892, dove fu istituito il primo dipartimento dedicato, denominato “Scuola di Chicago”, in cui si tenne dal 1931 al 1933 il primo corso proprio di “Sociologia Clinica” diretto da Ernest W. Burgess, appartenente alla suddetta scuola. In Italia la prima facoltà di Sociologia(Istituto Superiore di Scienze Sociali – ISSS) nasce a Trento nel novembre del 1962,voluta da Bruno Kessler (Presidente della Giunta Provinciale). Gli iscritti dell’epoca furono 226, di cui, 136 trentini, 65 provenienti da fuori regione e 25 alto atesini [8]. Sempre in Italia, prima che nascesse la facoltà di Sociologia di Trento, esistevano già alcuni importanti sociologi accademici che insegnavano nelle facoltà di Lettere, Scienze Politiche, Giurisprudenza, degli atenei di Roma, Pavia, Milano, Torino, Padova, Bologna, Firenze, Genova.
Se Trento ha potuto levarsi come facoltà è perché era già presente da tempo una Sociologia italiana, anche se di esile consistenza. La nascita della facoltà di Sociologia di Trento fu un avvenimento innovativo perché istituzionalizzò la disciplina che assunse così rilevanza e autonomia accademica, non più inserita in facoltà ad indirizzo umanistico ma corso di laurea a sé stante, autonomo[9].Entrata a far parte del mondo accademico la Sociologia italiana si è, però, progressivamente arroccata su se stessa, rifugiandosi in una sorta di “torre d’avorio”[10], perdendo contatto con la realtà. Nel tempo, “fare sociologia” ha via via significato quasi esclusivamente ossificare le teorie, starsene seduti in biblioteca o a sciorinare statistiche, benché tutti questi aspetti abbiano la loro indiscutibile importanza.
Sono stati pochi i sociologi, in maggioranza non accademici, che nel tentativo di diffondere dal “basso” nei cittadini italiani una sorta di “immaginazione sociologica”,[11] si sono assunti il rischio di abbandonare la “torre d’avorio” per affondare le mani nella “carne viva” della società, in quel disagio causato dalle contraddizioni presenti nell’interazione continua, incessante, tra dimensioni ‘macro’, ‘meso’ e ‘micro’ sociologiche [12].
Soltanto un esiguo numero di sociologi si è assunto la responsabilità di divulgare quelle conoscenze sociologiche di base che dovrebbero costituire il patrimonio civico e culturale di tutti i cittadini, giustificando così anche il proprio ruolo professionale, nonché la propria funzione sociale e pubblica. Pochi hanno consumato le suole delle scarpe per instaurare relazioni concrete “face to face”, altri si sono trasformati in “notabili” della sociologia, oppure in “notai” certificatori della realtà sociale, descrittori fine a se stessi, altri ancora, la maggior parte, dispersi nelle nebbie della disoccupazione o della “spersonalizzazione” professionale rispetto al titolo di studio conseguito.
Il risultato nefasto prodotto dai “dominus” accademici è che la maggior parte dei cittadini italiani non conosce chi sono i sociologi, cosa fanno, qual è la loro funzione all’interno della società, la loro utilità professionale. Purtroppo la suddetta ignoranza affligge anche le classi dirigenti allocate in diversi ambiti istituzionali pubblici e privati, convinte che della società si possono avere soltanto conoscenze opinabili e mediatizzate non fondate sulla ricerca scientifica.
Tale incultura sociologica danneggia i livelli occupazionali degli stessi sociologi – i “grilli parlanti” della società –perché è dal riconoscimento di bisogni collettivi da soddisfare che nascono i mercati, le istituzioni e le professioni. Di conseguenza, l’interrogativo da porsi è: “La società italiana riconosce di aver bisogno della Sociologia e dei sociologi?” Altrimenti perché continuare a laurearsi in Sociologia? Perché corrispondere stipendi e onorari ai sociologi?
La Sociologia italiana contemporanea zoppa e monca giace oramai su una barella.
Se vuole rialzarsi deve assolutamente scardinare la “torre d’avorio” in cui si è comodamente rinchiusa, rinunciando a capire le trasformazioni sociali che caratterizzano la complessa società postmoderna. Ciò è alquanto singolare perché la Sociologia all’alba della rivoluzione industriale nasce come “scienza di sistema” voluta dalla classe borghese emergente per comprendere e controllare il mutamento di una società in via di trasformazione epocale, che nel transitare da una economia agricola ad una economia industriale necessitava di un nuovo ordine sociale.
Sarebbe una sconfitta clamorosa, inenarrabile, per tutti i sociologi, se proprio la Sociologia, il cui oggetto di studio è la società nel suo insieme, rimanesse esclusa dall’interpretazione del cambiamento sociale in atto. Un tragico paradosso!
La Sociologia italiana per non auto-dissolversi, per essere protagonista e interprete del mutamento sociale in divenire, deve dunque smettere di concentrarsi quasi esclusivamente sugli aspetti “quantitativi” e “macrosociologici” che ancora oggi predominano nei piani didattici previsti per il conseguimento del diploma di laurea, integrando gli approcci “qualitativi” che caratterizzano la “microsociologia”.
Nella attuale situazione storica, sociale e istituzionale è divenuto un obbligo per i Dipartimenti di Scienze Sociali – insensibili verso il futuro occupazionale dei propri laureati e disinteressati nei confronti delle nuove configurazioni della professione sociologica, intervenute soprattutto dopo l’avvento della Legge 4/2013 “Disposizioni in materia di professioni non organizzate in ordini o collegi”[13]– considerare la molteplicità degli obiettivi che un corso universitario di Sociologia generale ha il dovere di raggiungere, ampliando e riequilibrando la gamma dell’offerta formativa complessiva, in modo tale da fornire agli studenti strumenti teoretici e applicativi integrati – tra cui vi rientra anche la Sociologia Clinica – che consentano loro, una volta divenuti professionisti, di approcciare con efficacia il difficile passaggio epocale che stiamo attraversando.
Pertanto, per i sociologi italiani dedicarsi alla Sociologia Clinica, diventando magari “Specialisti in Disagio Socio-Relazionale”, potrebbe costituire un ulteriore stimolo per essere protagonisti, costruttori di una nuova idea di società.
NOTE:
[1] Massima tratta da Emile Durkheim, Le regole del metodo sociologico, citato in Michel Lallement, Le idee della sociologia, vol. 1, Edizioni Dedalo, Bari, 1996, pag.160.
[2]Si ritiene che il termine specifico venne utilizzato per la prima volta dopo la metà del XIX secolo, ma fu soltanto intorno alla fine degli anni ‘60 del Novecento che la locuzione è entrata stabilmente nel linguaggio filosofico e sociologico, allorquando si è evidenziata la profonda crisi della “modernità”, della società industriale di massa, che ha determinato un mutamento radicale socio-antropologico. Con la “fine delle grandi narrazioni” (Jean-Francois Lyotard, “La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere”, edito nel 1979) sono nate nuove “visioni del mondo” intrise di ideali postmaterialisti, incentrati sull’individualismo, sull’autorealizzazione, sull’emancipazione del singolo. Gli universi valoriali divengono sempre più relativi, meno in grado di plasmare un “senso” socialmente condiviso.
[3] Stato esistenziale collettivo che causa “spaesamento” e “disorientamento”, definito da regole contraddittorie, deficit di ordine sociale, vacuità normative. Il termine è stato coniato da Emile Durkheim nella “La division du travail social” (1893), il quale definì “anomiche” le società fondate sulla “divisione del lavoro” attraversate da periodi di crisi collettive gravose, quando la velocità del “mutamento sociale” non consente alle norme di adeguarsi rapidamente alle istanze emergenti.
[4] Lo “spaesamento” è una condizione esistenziale in cui gli individui smarriscono i riferimenti quotidiani che fungono da “indici di senso”. Tale stato esistenziale viene ricondotto da Ernesto de Martino nelle categorie di “crisi della presenza” e “destorificazione del negativo”. Attribuire un “senso” al mondo, all’esistenza, è un’esigenza umana arcaica connessa alla precarietà della esistenza stessa. Nella società postmoderna “liquida” (Bauman, 1999),contraddistinta da incertezza e vulnerabilità, in modalità differenti dalle società tradizionali, il “senso” va incessantemente costruito e ri-costruito da individui costantemente esposti al rischio della crisi, al “non-esserci”.
[5]Disagi derivanti dal rapporto tra individui e sistema sociale caratterizzato dall’intersecarsi delle variabili micro, meso e macro sociologiche. Di seguito, per brevità, si riportano soltanto alcuni esempi delle innumerevoli “sociopatologie” riscontrabili in vari ambiti: conflitti distruttivi, mobbing, straining, burnout, precarietà lavorativa, alienazione, smarrimento da anomia, stress da disorganizzazione sociale, virtualizzazione della realtà e sindromi da eccesso di connessione, dipendenze, violenza agita e assistita, devianza criminale, ecc.
[6] Tendenza ad attribuire il disagio alla fragilità individuale sopravvalutando l’importanza dell’elemento psicologico non considerando i fattori sociali di contesto che contribuiscono a rendere più o meno fragili le persone. In questo significato ristretto, lo “psicologismo” assume una accezione “riduzionista”.
[7]In Psichiatria e in Psicologia è così definita l’”’intuizione”, la “rivelazione veritativa”, la presa di coscienza immediata, la consapevolezza del proprio stato patologico o esistenziale.
[8] http://www.dna.trentino.it/la-nascita-di-sociologia-a-trento/
[9] https://sociologiaitaliana.egeaonline.it/it/21/archivio-rivista/rivista/3342757/articolo/3342802
[10]L’espressione “torre d’avorio” (o torre eburnea, dal latino “turris eburnea”) viene utilizzata dal XIX secolo per indicare la tendenza degli intellettuali a rinchiudersi in attività non collegate alle prassi della vita quotidiana.
[11] Secondo Charles Wright Mills:“L’immaginazione sociologica permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Gli permette di capire perché, nel caos dell’esperienza quotidiana, gli individui si formino un’idea falsa della loro posizione sociale. Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l’ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama psicologica di tutta una gamma di uomini e di donne. Riconduce in tal modo il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici“. Opera edita per la prima volta nel 1959, “L’immaginazione sociologica” di Charles Wright Mills ha segnato le scienze sociali. Egli partendo dall’analisi integrata di storia, biografia e strutture sociali ha indicato il modo di liberarsi dai condizionamenti che spesso pervadono inconsapevolmente gli individui, persino gli studiosi, limitandone le visioni del mondo.
[12]Macrosociologia >Considera gli individui all’interno delle strutture sociali che ne influenzano e condizionano il comportamento. Il focus è posto sull’analisi modellizzata dei rapporti intercorrenti tra le diverse parti della società e sui processi attraverso i quali questi modelli mutano nel tempo. Ha come oggetto di indagine fenomeni sociali molto vasti, tra cui, ad esempio, la globalizzazione, le classi, le stratificazioni, le generazioni, i conflitti, ecc.; Mesosociologia> Approccio che attraverso l’analisi delle dinamiche dei gruppi e dei network relazionali consente di connettere in intersezione il livello macro con quello microsociologico. Grazie alla raccolta di informazioni sui legami esistenti tra gli attori sociali (individui, gruppi, organizzazioni ecc.), in termini di forza, intensità, frequenza, ecc., è possibile correlare il livello empirico con quello teorico. Il livello meso è condiviso con la Psicologia Sociale soprattutto per ciò che concerne i processi di ”influenzamento”; Microsociologia>Si occupa delle relazioni face-to-face agite tra persone all’interno di uno spazio ristretto microsociale. Analisi qualitativa su scala ridotta fondata più sull’osservazione diretta che su dati statistici. Benché storicamente i tre approcci abbiano costituito ambiti di ricerca separati, attualmente vi è la tendenza a considerarli complementari.
[13] La Legge 4/2013 “Professioni non organizzate in ordini o collegi” è divenuta la normativa di riferimento per le associazioni professionali di categoria aventi natura privatistica, riconosciute dai Ministeri di competenza dopo peculiari iter amministrativi, le quali assumendo una funzione simil-ordinistica sono tenute a garantire e tutelare la professionalità degli iscritti.