Testo di Gianluca Piscitelli (*), Fotografie di Valentina Parisi (**)
Siamo a tempo, siamo tempo. “L’obiettivo della nostra corsa verso la morte” – afferma Michel de Montaigne – “è l’oggetto necessario della nostra aspirazione: se ci spaventa non potremo muovere un passo senza agitazione. Il volgo risolve la cosa non pensandoci, senza tener conto della stoltezza che può derivare da una così rozza cecità. L’asino va preso per la coda” (tratto da Bisogna giudicare la nostra felicità solo dopo la morte). In breve, il celeberrimo filosofo francese ci ricorda che la coscienza del limite, della morte, è il motore dell’esistenza e, pertanto, indispensabile al nostro perfezionamento – che, in fin dei conti è un prepararsi a quello che resta il più grande evento della nostra vita, dopo la nascita.
Con riferimento, poi, al nobile animale che andrebbe preso per la coda – metafora di una corporeità che deve essere spesa sino a provare quel senso di pudore indispensabile affinché ci siano spalancate le porte d’accesso alla vera conoscenza, alla verità e alla divinità in questa vita – Lucio Apuleio nelle Metamorfosi elabora un’affascinante struttura narrativa. Le vicende dell’uomo che diventerà asino per poi riscattarsi, novello sacerdote di Osiride e nella speranza di un aldilà felice con gli dei, rappresenta uno dei migliori esempi della tragedia umana dinanzi all’inarrestabile divenire, all’angoscia della morte. Una dei tanti espedienti, dei tanti punti appoggio a partire dai quali tentiamo di concepire e affrontare la vita, con le sue situazioni-limite, nonostante l’inarrestabile naufragare verso un nulla che ci risucchierà. E cos’è un territorio, per noi umani, se non un registro vivente delle nostre vicende, area di sedimentazione delle relazioni sociali che li si sono intessute generando oggetti, simboli, strutture?
La stessa pretesa di voler conoscere qualcosa all’’esterno’ di noi, così come la sua conformazione, la composizione chimica o le tracce di un passato testimoniato da reperti, artefatti di varia natura, resta nei confini angusti di ciò che – in questo caso, il territorio – è per noi la costruzione che ne facciamo. E che non avrebbe neanche un senso al di la della nostra attenzione ad esso, seguito da un’indispensabile narrazione che è poliedrica, per la molteplicità delle forme in cui può essere intessuta, espressa; forme strettamente legate ai tanti aspetti che la nostra creatività è stata in grado di codificare a partire dai singoli aspetti, ognuno degno di considerazione, di ciò che viene osservato e poi ‘raccontato’.
Ecco, allora, i tanti significati che può assumere un territorio: ne abbiamo uno in geografia, e poi un altro in urbanistica, diritto, in sociologia, storia, economia, e così via. Tanti quanti i ‘saperi’ riconosciuti, legittimati (si badi bene, sempre di una ‘costruzione’ parliamo) in ragione di un proprium che ne sancirebbe la specificità e l’autorevolezza tra le forme possibili della conoscenza.
Concetti, categorie e postulati strutturano così l’obiettivo mentale per mezzo del quale ricavare (sempre un ‘costruire’), un’immagine dell’osservato e narrarla nel proprio specifico linguaggio. Ma, come ogni buon fotografo sa, ogni obiettivo ha i suoi limiti e può generare difetti, distorsioni o disturbi dell’immagine di cui non si è sempre coscienti, o in riferimento ai quali si è capaci o in grado di correggere. Si pensi, ad esempio, alle tribolazioni di chi è chiamato ad occuparsi di pianificazione territoriale nella nostra Capitale…
Nel rappresentare, forte della sua arte, dei frammenti di realtà, Valentina si cimenta in un lavoro che appare da subito arduo da compiere, se non altro, per la singolarità del contesto osservato. A partire dal suo nome: Infernetto. Già appare curioso che così poco distante da uno dei più importanti simboli della cristianità e della redenzione eterna sia stata individuata un’area con tal nome: quasi a significare che il confine tra la concessione della grazia celestiale e la perdizione eterna non è poi così spesso e che ad errare senza meta nella propria vita, ossia senza il senso del limite di cui sopra, si rischia di giocarsi l’opportunità della felicità eterna. In verità, quel nome discenderebbe dalla destinazione che l’area ebbe nei secoli passati, quando ancora il carbone era fonte di energia per la città di Roma e gli insediamenti sporadici dei carbonai erano favoriti dall’abbondanza di legna ed acqua. Il fatto che i fumi della combustione delle carbonaie fossero visibili dalla città deve aver generato la tradizione di identificare l’area stessa col termine, appunto, di Infernetto.
Il territorio appare, così, tuttora pregno di quell’essere terra di mezzo (un confine?) tra il mare e la città, rifuggita per il suo carattere selvaggio e paludoso che – come per gran parte dell’area costiera laziale, prima della bonifica, qui ad opera dei romagnoli magnificati dai toponimi stradali della vicina Ostia – era sinonimo di insalubrità.
Eppure, lo stesso modo in cui venivano organizzate le carbonaie (formazioni di cataste di legna di circa tre metri), e la compresenza di due elementi di connessione tra il microcosmo umano e il macrocosmo naturale come il fuoco e l’acqua, sinonimi rispettivamente di morte – ossia, trasformazione – e vita; tutto ciò non dovrebbe far sottovalutare la sacralità del luogo con i suoi misteri e che fa vagheggiare su un altro territorio di confine dove si avverte forte la costante compenetrazione di vita e morte: i gath di Varanasi.
Ed è sul mistero avvolgente l’Infernetto che Valentina richiama la nostra attenzione, apparentemente convergendo su queste nostre considerazioni, nella sua narrazione per immagini o quando più esplicitamente si chiede: “come mai Abdullah Ocalan si è nascosto proprio qui? Perché, sempre qui, la morte di Troisi? Cosa spinge un’umanità anonima a rifugiarsi all’Infernetto?”
Nel mentre lo sguardo si posa sulle immagini, con uno stile espositivo per nulla eccessivo, ridondante, Valentina risveglia nell’osservatore la consapevolezza delle trappole della vita, ossia di ciò che ci incatena a ciò che siamo come individui a causa di una società che ci identificherebbe attraverso un nome; un nome che ha già una sua storia e la cui funzione è quella di stabilizzarci in un ruolo, renderci indivisibili, sempre uguali a noi stessi, coscienti, responsabili. Siamo così vincolati a costruire noi stessi che, per dirla con il Pirandello de L’Umorismo, è uno spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o di incosciente imitazione. Ma è proprio nel momento in cui si scopre questa ‘spontaneità’, e innocenza animale della costruzione, che si scorge l’amorfo e il caos da cui ogni forma – anche quella che gli altri fanno di noi e che ognuno di noi fa dell’altro e dell’ambiente che ci circonda- si innalza come ordine o protezione, sebbene del tutto precari. Tutto crolla, allora, tutto rivela la propria natura transeunte, peritura. C’è da dolersi di ciò che è? Valentina ci invita, semmai, a coglierne il fascino intrinseco, ad apprezzarlo con rinnovato stupore.
Certo, la piena coscienza di tutto ciò può essere sconvolgente, indurci magari ad una svolta nella nostra vita, perché di essa ne riusciamo ora a cogliere la fragilità, l’instabilità, l’impossibilità di una sua programmazione che si possa rispettare. Che fare? Restare prigionieri dei condizionamenti ricevuti, rassegnati al dominio del passato o reagire dinanzi alla scoperta dell’illusione (delle illusioni) in cui siamo vissuti? Valentina, fortunatamente, ci offre un’opportunità di reazione e la sua narrazione fotografica sembra assumere i contorni di una terapia dell’immaginazione, mediante la configurazione di un sistema simbolico utile a riorganizzare l’esperienza. Per contrastare la disgregazione della coscienza a fronte della consapevolezza del nostro inarrestabile naufragio, Valentina ci invita ad affidarci allo spazio, alla geografia; alla creazione di un reticolo di luoghi, con i loro particolari ritratti, e di rappresentazioni topografiche che sembra esprimere una corrispondenza biunivoca con gli elementi indesiderati e di invivibilità, di estetico e inestetico della vita, con i dolori e le gioie, le menzogne e le verità, di cui l’Infernetto sembra fornirci abbondanti segni. Nulla è taciuto.
Né l’inarrestabile divenire che si manifesta per mezzo di un muro invecchiato, del manto d’asfalto frantumato di una strada, della lamiera che arrugginisce o della stratificazione di stili architettonici, i quali a loro volta esprimono le variegate sensibilità temporalmente contestualizzabili; né la morte, che ci rammenta la sua ineludibile presenza attraverso un albero essiccato, un tronco spezzato, le braccia avvizzite di una sarmentosa; o i fumi che segnalano l’incendio di una macchia e lasciano presagire lo svanire (non infrequente, purtroppo, in questa parte della Caput Mundi) della vegetazione.
Lo scorrere delle immagini sortisce, pertanto, il magico effetto di introdurci in una dimensione che è di sospensione: il tempo sembra essersi fermato, l’umanità assente o per lo più ridotta a simulacro. E in ciò, ci sembra scorgere al contempo una denuncia – più che mai attuale, considerato il delirio pandemico che stiamo vivendo – e un invito. La denuncia che rinvia al grido strozzato di: “umanità, umanità, dove sei?”, in tutta la ricchezza di significati possibili.
L’invito, invece, è quello di non rinunciare, nonostante il dolore e la tragicità della vita, a compiere con pienezza la nostra missione di esseri umani affrontando con coraggio il grande, quotidiano mistero, che il Michael Ende di Momo ci ricorda essere il Tempo: “Tutti gli uomini ne partecipano ma pochissimi si fermano a rifletterci. Quasi tutti si limitano a prenderlo come viene e non se ne meravigliano affatto. Esistono calendari e orologi per misurarlo, misure di ben poco significato, perché tutti sappiamo che, talvolta, un’unica ora ci può sembrare un’eternità, e un’altra invece passa in un attimo…dipende da quel che viviamo in quest’ora. Perché il tempo è vita. E la vita dimora nel cuore”. L’Infernetto è allora, nella narrazione che Valentina ne fa, lo sfondo adeguato per richiamarsi – cosa quanto mai indispensabile di questi tempi – all’autenticità della vita.
(*) Gianluca Piscitelli, Ph.D. in Politiche sociali per lo sviluppo locale. Sociologo clinico, coordinatore delle attività di ricerca ed editoriali del Lab-SPAC
(**) Valentina Parisi è una fotografa che guarda lo spazio con gli occhi di una ricercatrice. E’ laureata in Lettere con una tesi in cartografica storica e dal 2019 è impegnata sul territorio di Roma per indagare su l’Infernetto, zona urbanistica periferica nata spontaneamente alla fine degli anni ’50. Cliccando QUI, puoi raggiungere il suo blog.