di Antonio ROSSELLO. Immagini di Igor BELANSKY
Nel passaggio dalla modernità alla postmodernità, il progresso tecnologico, che ha messo l’individuo a contatto con realtà diverse a cui ci si può rapportare nei modi del desiderio, ha annullato le distanze, le attese e rendendo tutto più raggiungibile. Lo scotto dell’ampio palcoscenico della variabilità esperienziale generatosi è stato la proliferazione delle possibilità di disagio nelle relazioni sociali, che si sono rarefatte fisicamente e talora sono divenute «tossiche». In questa temperie si è venuto a configurare lo spazio di azione quella particolare branca della Sociologia, che è la Sociologia clinica.
Nel corso dei precedenti articoli relativi a questo ciclo dedicato al mondo della Relazione nel suo complesso, abbiamo ampiamente argomentato su vari aspetti per cui, sin dall’alba della sua storia, nella culla della civiltà greca, l’Occidente ha concepito l’uomo quale animale dotato di linguaggio («zôon lógon échon»), e dato che nessuno parla da solo, l’uomo sia un animale sociale («zôon politikón»), al punto che Aristotele conclude che si è uomini solo in quanto membri di una comunità («pólis»).
Lungo il percorso che abbiamo seguito, abbiamo pertanto intravisto quali siano i fattori maggiormente implicati nel processo di mutamento sociale, endogeni (generati, cioè, dalla stessa società) ed esogeni (provenienti dall’esterno), che la ricerca sociologica ha individuato: l’ambiente fisico, la popolazione, la cultura, i movimenti collettivi.
In tal senso, è a tratti emerso il ritratto di una società piegata dal materialismo e dalla paura; impotente di fronte all’eclissi del sacro; confusa da depressione e noia; in preda al delirio dello sviluppo infinito e irrigidita dal dominio della Tecnica; che ha rinunciato alla Bellezza e all’Arte per rifugiarsi nel kitsch; che si è abbandonata al populismo e ha confuso la libertà con il pensiero unico planetario.
Di riflesso, abbiamo approcciato quel termine «modernità», che letteralmente rappresenta tutto quanto appartiene ai tempi più recenti, sui cui mali e potenzialità si sono misurati – a partire da un movimento filosofico-estetico che, in linea con i cambiamenti culturali affioranti, nacque dalle enormi trasformazioni della società occidentale durante la fine del XIX secolo e l’inizio del XX – politici, filosofi, artisti, sociologi e in generale tutti i cittadini ritrovatisi, giorno dopo giorno, a dover gestire le acquisizioni della scienza, della tecnica e della tecnologia. La modernità è quindi diventata quasi un emblema per alcuni e un incubo per altri, non comprendendo che, in realtà, sulla strada dell’equilibrio e del buon senso essa non sarebbe potuta risultare né un mito indiscusso né quell’oscuro progetto le cui dissonanze hanno originato corpose obiezioni (Luhman, 1996).
Le principali reazioni, concretizzatesi nel termine «postmodernità», sono state introdotte, nell’ambito di un ampio movimento ideale sorto tra la metà e la fine del XX secolo, attraversando la filosofia, le arti, l’architettura e la critica. In generale, esse postulano la crisi e il tramonto della modernità nelle società del capitalismo maturo, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, con l’entrata in una fase caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti telematiche (Bauman, 2021). In tal modo, seppure banalmente intesa talora quale il periodo storico che segue la modernità, secondo una vasta varietà di approcci e discipline, l’accezione di postmodernità è generalmente caratterizzata dal dubbio. scetticismo, ironia o rifiuto delle grandi narrazioni e ideologie del modernismo, spesso mettendo in discussione vari presupposti della razionalità proclamata, come esito supremo della lezione cartesiana, dall’Illuminismo (Malo, 2011).
In altre parole, se la modernità poneva una stretta ed autentica relazione tra ciò che si comunica (il significato o messaggio) ed il modo in cui lo si diceva (il significante o mezzo), il postmodernismo ritiene che queste due fasi si compongano e si disgiungano in differenti intrecci, per via di un’alterazione del senso della realtà, divenuta sempre più intrinsecamente plurale e differenziata nella sua struttura, a causa dei rapidi cambiamenti scientifici, tecnologici, economici e politici (Lash, 2000). Nell’esperienza umana contemporanea sembrano, infatti, convivere e scorrere parallelamente diversi piani, ciascuno avente una sua legittimità, con una ridefinizione del senso delle relazioni sociali e della loro organizzazione, a seguito dell’espansione a dismisura delle possibilità dei mezzi di comunicazione. La repentina crescita dei rapporti sociali, favorita dall’incremento degli ambiti della loro realizzazione, rende gli stessi più problematici, meno lineari e prevedibili rispetto al passato, rivestendoli di quella continua rielaborazione, rinegoziazione che supporta il continuo divenire rispetto ai loro ruoli e alla formazione delle identità proprie degli uomini.
Nei contesti politico-sociali, inoltre si riscontra di conseguenza un variato modo di intendere e gestire lo spazio e il tempo (Pacelli, et al., 2007). Una simile ridefinizione di realtà, spazio e tempo comporta, inoltre, una rimodulazione del senso del sapere, la quale si riflette sul modo di interpretare e distinguere tra vero e falso, giusto e sbagliato (Cambi, et al., 2019). Nella società postmoderna, che muta costantemente, pertanto, anche la Sociologia deve adeguare rapidamente gli approcci conoscitivi e di intervento.
Si determinano così le condizioni per cui la conoscenza non necessariamente rappresenta fonte di risoluzione dei problemi, in quanto, a volte, più conosciamo e più mutiamo la realtà, più emergono questioni impreviste. Il sapere, invece di liberare ed emancipare l’uomo, rischia di relegarlo in dimensioni sistemiche. Sempre più spesso, il sapere cede la sua visione d’insieme, la sua capacità di congiungere gli ambiti della conoscenza, produce divaricazioni enormi tra le discipline e le specialità. E, da ultimo, assistiamo ad un’oscillazione del senso dell’identità, prodotta dall’influenza di tutte queste relazioni: nei secoli scorsi, gli esseri umani riconoscevano con maggiore facilità e immediatezza la propria condizione, il proprio ruolo, le proprie occupazioni, le proprie appartenenze, i propri destini, mentre, nell’età contemporanea, emerge, con evidente drammaticità, la situazione per cui nascono numerosi “grumi” e mini-aggregazioni su un piano che non è più “naturale”, ma economico e culturale. Questa tendenza è favorita dal web e dai nuovi sistemi di aggregazione sociale come Facebook, tv tematiche e on-demand, forum settoriali. Tutti elementi che conducono verso una sempre più diffusa «frammentazione» della società e alla nascita di tanti piccoli “ghetti” dove individui con gusti e idee simili si “aggregano” e discutono. Ma le relazioni si evolvono. Cambiano e crescono. A volte si consumano e si logorano (Magatti, 2012).
Tutto ciò è l’opposto dell’agorà, laddove cittadini di ogni estrazione e idea si riuniscono per discutere e decidere del futuro della polis. Ed è estremamente pericoloso, vista la possibilità di un connesso accrescimento della conflittualità sociale: si induce quindi una lotta per l’affermazione di identità che non riveste solo una dimensione solo esistenziale, emotiva o personale, ma che assume numerose, non trascurabili, implicazioni politiche: si pensi alle questioni alle minoranze, ai migranti, alle differenze culturali e religiose, ai nuovi diritti.
Il postmodernismo «seleziona» gli uomini, generando, nella brama del successo, numerosi perdenti, sconfitti: se tutta la società diventa una gara esasperata, tutte le relazioni sociali (e dentro di esse la nostra vita) vengono modellate dalla concorrenza e non esistono più zone franche rispetto alla lotta per la vittoria. In questo quadro, anche le esperienze sociali – qui intese sia come relazioni sociali che eventi di vita – che implicano le biografie degli individui, legandoli vicendevolmente in specifici contesti d’interazione, possono essere analizzate dal punto di vista della loro tossicità, sebbene in partenza la definizione di questo termine appartenga all’ambito della medicina, ma anche della psicologia (Piscitelli, 2021).
E questo presupposto oggi corroborato dall’evidenza empirica, dalla ricerca scientifica nasce da una concezione dello psichiatra George Brock Crisholm – il primo direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – per la quale: «la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità», come affermato dalla stessa Costituzione dell’OMS, nel 1948. Ma qual è il significato di relazione tossica e come riconoscerla? Una relazione è «tossica» quando può far male e si genera tra persone che non si supportano a vicenda, dove esistono ingiustificatamente conflitto, competizione, incomprensione o umiliazione, dove c’è dove c’è mancanza di rispetto e di coesione. È un elemento della propria vita di cui si è «intossicati» e da cui si ritiene necessario disintossicarsi (Goldberg, 2019).
Portando lo sguardo oltre piano fisico, ma anche quello psicologico, non sarebbero dunque né le profonde e irriducibili differenze genetiche; né gli stili di vita riconducibili alla responsabilità di autogoverno delle persone, ossia alle scelte individuali che queste fanno, a determinare un simile stato di salute e benessere (la tossicità), quanto piuttosto la situazione sociale. Quest’ultima renderebbe gli individui più o meno soggetti all’occorrenza di eventi di vita stressanti o di relazioni sociali comportanti fattori di stress cronico (in termini di eziologia, causa diretta e indiretta di malessere e malattie).
La correlazione tra stato di salute e di benessere e posizione sociale è pertanto basata su meccanismi in parte biologici, inerenti al corpo, la corporeità del soggetto, psicologici, relativi al modo di porsi o ai comportamenti dello stesso, e sociali, ossia relativi alla particolare struttura sociale nella quale si determina il disagio (Avanzini Barbero, 2002). Ci si deve quindi muovere in una cornice multidisciplinare, nella quale, alla figura del medico (delle varie specializzazioni coinvolte, neuroscienze in primis) e dello psicologo, si aggiunge quella del sociologo, il cui intervento è mirato ai possibili miglioramenti dei comportamenti assunti dai singoli individui all’interno della loro comunità, soprattutto se comportamenti problematici, rimuovendo o, quantomeno, a riducendo sui fattori di stress cronico e malessere che li accompagnano. In sintesi, prevenire l’insorgenza del cosiddetto burnout, uno stato di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale (Giarelli, 2012).
In tal modo, si delineano apposite attività di sostegno che ampliano la consapevolezza, la resilienza e tollerabilità al male di vivere, ossia il senso della capacitazione, l’empowerment dei soggetti interessati, assai spesso già distorto via dei processi di «iper-responsabilizzazione» tipici delle cosiddette società liberali avanzate e della seduzione delle grandi possibilità di che si aprono con la globalizzazione, la città globale rappresentata da tutto il nostro pianeta. Già Georg Simmel (1858-1918), sociologo e filosofo tedesco, aveva parlato di Spirito della Metropoli sottintendendo l’attraenza che la città esercita sugli individui e la pienezza che essa da per le emozioni, le esperienze che può procurare, le relazioni che permette di intrecciare (Simmel, 1996 (1ª ed. originale: 1903).
Ma nella città globale si sono addensati i limiti della post-modernità: la privatizzazione della gestione dell’esistenza affidata agli individui che devono «arrangiarsi da soli» nell’universo urbano, venendo a mancare la rete comunitaria, un mondo comune e un fine collettivo come conseguenze della predetta privatizzazione. Tutto in piena contraddizione con la nostra natura, in base alla quale, per paura della solitudine, sentiamo il bisogno della presenza degli amici per sentirci vivi. Ci aggrappiamo talora alla collettività per sfuggire alle responsabilità della vita (Giudicini, 2004).
Sono fattori che sono esposi in tutta la loro drammaticità, nel momento in cui la socialità è stata messa a repentaglio dall’emergenza Covid-19, richiedendo alle scienze sociali una riflessione corale, basata su paradigmi innovativi della direzione di senso delle nostre società. Dal 2020, la pandemia si è insinuata in società già afflitte da disuguaglianza e discriminazione, allargando solchi e divisioni, portando da una parte restrizioni, chiusure e quarantene, dall’altra paure sul fronte della salute, dei servizi pubblici, del lavoro e dei diritti civili, fino all’estremo di tentativi non circoscritti di insinuare il seme del dubbio, creare convinzioni antiscientifiche e complottistiche (Wu_Ming 2021). Volendo indagare le cause, possono essere stati la rarefazione dei legami sociali, la ricerca compulsiva del piacere e della felicità individuale, il predominio della cultura dell’adesso a mettere drammaticamente in luce la difficoltà di identificare una direzione di senso del genere umano capace di contrastare imprevisti mortali come una pandemia (Guigoni, et al., 2020).
Igor Belansky ha realizzato due tavole (I e II, quest’ultima qui di seguito), per fotografare questo periodo della nostra vita e in particolare tutti i cambiamenti che abbiamo vissuto: il rallentare del tempo, l’iconografia del contagio, la distanza sociale e di classe, i nuovi linguaggi, la tecnologia come unico contatto con gli altri, la vita casalinga come labirinto senza uscita, le finestre come occhi e mezzi di controllo. La finestra qui è proprio la soglia per eccellenza: dall’interno è una cornice che inquadra il paesaggio, all’esterno rivela la vita e la personalità.
Un freddo orrore accompagna la seconda immagine, al fondo della quale si possono intravedere una solitudine e un vuoto angosciosi. Al contrario nella prima, si evince che ogni qualvolta che noi vogliamo puntare in alto, vogliamo puntare alla perfezione, vogliamo puntare alla felicità, non possiamo mai farlo senza l’altro, senza metterci in relazione.
E tutte le volte che ci castriamo, tagliando i rapporti intorno a noi, pensando che bastare a sé stessi ci renda felici, lo facciamo semplicemente perché ci stiamo proteggendo, perché abbiamo paura di soffrire, abbiamo paura di metterci in gioco o semplicemente perché siamo pigri. La scissione interiore che l’uomo vive si affianca da una parte, ai seducenti inviti all’edonismo; dall’altra alla difficoltà del vivere quotidiano in un contesto carico di rischi, inospitale e a tratti invivibile, ove si moltiplicano le trasmissioni virali di ogni pericolo (Manfredi, 2015).
Così, a partire dalla constatazione della difficoltà degli esseri umani occidentali ad abitare l’incertezza contemporanea, ritorniamo alla necessità di porre domande e abbozzare possibili risposte su nuovi presupposti, anche in termini di politiche sociali formali e informali ancora più accurate, senza prescindere dalla constatazione delle contraddizioni che si vivono nella postmodernità, nel momento storico in cui la gestione amministrativa neoliberista attuata da alcuni Stati occidentali – Italia compresa – ha comportato la destrutturazione del sistema simbolico-materiale del welfare state. A questo punto, mutuando una frase attribuita al sociologo francese Emile Durkheim (1858-1917: «La sociologia non vale la fatica di un’ora se non servisse per migliorare la societàii», si può evincere quale debba essere il nucleo costitutivo, il compito concreto della Sociologia Applicata, in particolare della Sociologia Clinica, che ne rappresenta una delle principali emanazioni.
Pur vantando un inizio glorioso in America negli anni ’20, essa si afferma negli anni ’30 del ventesimo secolo quale analisi e proposta terapeutica di intervento nei confronti del disagio sociale e della criminalità, ma comincia ad inizia ad essere conosciuta in Italia solo nei primi anni ’90 del secolo scorso. Sebbene l’accezione «clinica» rimandasse nell’opinione comune prettamente alla partica ospedaliera e venisse quindi timidamente celato (anche se l’etimo greco «klinikḗ» indichi sostanzialmente accudire, soccorrere la persona malata o bisognosa), da quel momento la sociologia italiana assunse finalmente anche una sua valenza terapeutica.
In quest’ottica, il sociologo clinico, ossia un laureato in scienze della società (sociologia, scienze della comunicazione, scienze politiche, scienze dell’educazione), dotato di esperienza, specializzazione e skill in mediazione sociale, magari pure in neuroscienze e neuro-meditazione, identifica la natura, l’entità e il decorso dei disagi derivanti dalle dimensioni macro-meso-micro sociologiche, indicando le modalità di trattamento «terapeutico» più appropriate. Diviene così un vero e proprio ricostruttore di relazioni sociali (Luison, et al., 2029).
Ulteriormente, ci sembra che la missione della Sociologia clinica sia proprio quella di mitigare il profondo malessere esistenziale individuale e collettivo causato dall’«anomia» che caratterizza la società postmoderna.
Riferimenti bibliografici:
Avanzini Barbero B., (2002), Devianza e controllo sociale, Franco Angeli, Milano;
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Giarelli G., (2012), Sociologia e sociologia della salute. Andata e ritorno, Franco Angeli, Milano;
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Guigoni A., Ferrari Renato, (2020), Pandemia 2020. Lavita in Italia con il Covid-19, M&J Publishing House, Beongil (Sud Corea);
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Manfredi G., (2015), Infodemia. I meccanismi complessi della comunicazione delle emergenze, Guaraldi, Rimini;
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Piscitelli G., “Le verità del corpo: sociologia clinica e ‘tossicità’ delle relazioni sociali”, in The Critical Society. Giornale delle scienze sociali, 3 gennaio 2021, https://www.criticalsociety.it/2021/01/03/le-verita-del-corpo-sociologia-clinica-e-tossicita-delle-relazioni- sociali/.
Simmel G. (1996, ed. a cura di Paolo Jedlowski, ed. or. 1903), La metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma;
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Sitografia:
Ministero della Salute https://www.salute.gov.it/portale/rapportiInternazionali/dettaglioContenutiRapportiInternazionali.jsp?area=rapporti&id=1784&lingua=italiano&men u=mondiale