di Carlo Mazzucchelli (*)
Siamo tutti stanchi!
Dopo due anni di Coronavirus tutti ci sentiamo stanchi, quasi non riusciamo più neppure ad arrabbiarci. Anzi la paura dilaga come testimoniano le migliaia di persone (italiani!), a piedi o in auto, in fila per un tampone. Ci è voluto del tempo ma ora la percezione di essere tutti in apnea è forte, acuita anche dalla sensazione che il problema non è tanto l’epidemia sanitaria quanto l’emergere di una catastrofe più grande determinata dal venire a galla di tanti nodi che abbiamo prodotto nell’arco di decenni. E i nodi non sono solo quelli ambientali!
Il sistema non regge più, è diventato insostenibile. Lo percepiamo tutti, ce lo diciamo anche, ma la complessità del mondo e la ormai diffusa scarsa conoscenza (scarse non sono le informazioni, ce n’è a iosa) ci impedisce di intravedere da dove potrebbe emergere il cambiamento che serve per ridurre le criticità e far tornare a sperare.
L’epidemia e la distanza
Come scriveva Elias Canetti nel suo libro Massa e Potere, mentre il terremoto agisce con fulmineità e si compie in poche breve scosse, l’epidemia ha effetti cumulativi di cui tutti siamo testimoni, in particolare coloro che sono stati contagiati o che hanno avuto parenti e amici deceduti per colpa del virus (per chi ama il macabro Canetti disserta sulle Masse di morti contagiati).
In questa epidemia da terzo millennio che ha visto dilagare povertà, disuguaglianza e precarietà, un aspetto tipico di tutte le epidemie assume un significato particolare: la distanza in assenza di corpo in presenza. “Il contagio – scriveva Canetti – fa sì che gli uomini si isolino gli uni dagli altri. Il miglior modo di difendersi consiste nel non avvicinare alcuno: chiunque potrebbe portare con sé il contagio.” Ora questo isolamento, questo schivare gli altri non è stato portato dalla epidemia. Era già presente e ben manifesto nel modo in cui moltitudini di persone abitavano e abitano le piattaforme tecnologiche online.
Un abitare privo di corpo, disincarnato, esperito attraverso profili digitali, dentro mondi virtuali percepiti e vissuti come reali, anche quando reali non sono. Un abitare che ha sempre bisogno di uno schermo-interfaccia che ci tiene sempre mobilitati e che i nostri volti e sguardi non riescono più a frantumare.
La nostra sensibilità e percezione umana della realtà (tempo, spazio e non solo) si è modificata e il nostro modo di relazionarci è da individui deprivati di corpi, occhi, volti (non facce), mani e sguardi. Abituati come siamo al pensiero binario e alla sua rapidità non percepiamo neppure che i simulacri che ci rappresentano online non hanno un corpo, non sono viventi.
Il corpo umano al contrario comunica con noi stessi e con il mondo, è dominato dal rapporto con l’Altro e dalle mille emozioni che, con le rughe del volto, le sue maschere, le pieghe degli occhi, un sorriso, veicolano significati, interpretazioni e interazioni sempre diverse, impossibili da prevedere e codificare perché frutto della interrelazione con un Altro incarnato, simbolo di molteplicità e comunità.
Il volto e lo sguardo
In questo corpo un ruolo particolare lo assume il volto con il suo sguardo umano. L’uno e l’altro capaci di trasmettere emozioni come gioia e tristezza, angoscia e speranza e, attraverso di esse, capaci di colpire la nostra interiorità, cambiandoci dentro.
Ora cosa succede se a questo volto mettiamo una mascherina? Ci rimane lo sguardo. Non poca cosa perché lo sguardo è ricettacolo di verità e illusione, parole e pensieri, responsabilità e sregolatezza, rughe di pensiero ed espressioni di inconsapevolezza. È dentro lo sguardo che si scontrano da un lato il bisogno di un altro volto, fatto di carne e di sguardi, che possa incrociarlo, comprenderlo o “salvarlo”.
Ma cosa succede se in quello sguardo comunichiamo o leggiamo la spasmodica ricerca di uno schermo. Uno schermo da tenere sempre acceso e illuminato, dentro il quale rispecchiarsi e riflettersi, mentre si è online ma anche quando la mente è offline.
Per andare oltre, per oltrepassare anche la pandemia, dobbiamo tutti recuperare lo sguardo e lo possiamo fare anche con la mascherina indossata correttamente. Con lo sguardo possiamo infatti misurare pensieri, parole e azioni, rispecchiarci negli altri (aiutati dai neuroni specchio…) e con loro provare a ripartire, far rinascere l’umanità, non dalla crisi sanitaria ma dalla crisi più grande che sta attraversando, riconoscere e affrontare le tante possibilità di cambiamento, mutazione e trasformazione che pure esistono.
Ma come si fa a recuperare corpi, volti e sguardi dopo la pandemia e dopo avere trasferito da tempo la vita online?
“Mai come oggi risulta difficile tracciare, almeno in prospettiva, una netta linea di separazione tra uomini e macchine (tra l’umano e l’artificiale) da una parte, e dall’altra parte tra l’umano e l’animale (tra uomini e bestie).” – Marco Revelli
(*) Marketing Director, Writer (20 books), Social Media/Web Strategist and Entrepreneur, Blogger, Trainer