di Massimo Corsale

I filosofi sono dei moralisti? E i moralisti sono filosofi? In linea di principio, direi proprio di no. Anche se i libri di storia della filosofia generalmente non fanno distinzione, né tra filosofi e moralisti, né tra i diversi livelli di discorso all’interno del pensiero di ciascun filosofo. A mio parere però si tratta di una confusione dannosa, perché da un lato oscura la vera funzione analitica e critica della filosofia, mentre dall’altro rischia di contrabbandare modelli culturali storicamente connotati come fossero teorie filosofiche.

Bisogna, è vero, tener presente che da circa un secolo a questa parte le scienze fisico-matematiche e naturalistiche, con le loro mirabolanti acquisizioni e l’effetto irresistibilmente accattivante delle loro applicazioni tecnologiche e terapeutiche, hanno acquisito una tale egemonia sulla cultura del nostro tempo da produrre un impoverimento impressionante dei discorsi dei filosofi (soprattutto anglosassoni) quando sono loro succubi. E per converso in Europa continentale, anche sotto la pregressa influenza, diretta o indiretta, delle varie forme di marxismo e dell’ideologia dell’ “impegno”, molti filosofi di professione sono stati tentati dall’assumere un ruolo di moralisti, quando non addirittura di guru (talvolta mutuandone anche le oscurità di linguaggio): nell’intento (velleitario) di rendere la filosofia utile o addirittura incisiva sul corso degli eventi storici. Senza tener conto però del fatto che quando i filosofi hanno ritenuto di avere titolo per governare la società (vedi Platone) o addirittura per proporre di “cambiare il mondo” (vedi Marx), il totalitarismo si è presentato alle porte.

Ma alcuni di noi intendono sottrarsi a quest’alternativa a mio parere mortificante per la filosofia, provando a recuperarne il ruolo essenziale di chiarificazione concettuale e linguistica e di esplicitazione delle ideologie e delle ipostasi sottostanti ai discorsi: tutti, sia quelli correnti che quelli scientifici o addirittura quelli filosofici. Cominciando per esempio con l’esercitare questa analisi a proposito di una tematica sulla quale si ritiene da molti (giustamente) che l’influenza attiva della filosofia possa essere utile: quella dei comportamenti umani e delle strutture sociali che si occupano della sofferenza cercando, se possibile, di lenirla.

Perciò, molto prima di decidere e quindi suggerire come debbano comportarsi le istituzioni della società nonché i relativi professionisti nell’affrontare la sofferenza, spetta proprio ai filosofi cercare di comprendere in cosa consista e quale ruolo svolga quest’ultima nell’ambito dell’esperienza umana. E di conseguenza individuare i diversi approcci ad essa e analizzarne il senso.

Ebbene, la sofferenza è un dato incontrovertibile, una dimensione dell’esperienza umana talmente radicale da aver trovato collocazione, e un proposta di spiegazione, addirittura nelle prime pagine della Bibbia. Ma, come tutti sappiamo per esperienza diretta (confermata anche dai testi sacri di tutte le religioni), la concettualizzazione di questo tipo di esperienza risulta molto complessa. E questa complessità ha conseguenze pesanti sulle strategie che eventualmente si volessero mettere in campo per lenire la sofferenza.

C’è la sofferenza patita in conseguenza di affezioni fisiche, ma anche quella percepita pure fisicamente ma in conseguenza di dinamiche mentali; c’è la sofferenza occasionale ma anche quella permanente; c’è la sofferenza come perdita, ma anche quella derivante dallo sforzo per conseguire qualcosa cui si tiene; c’è quella vissuta in seguito a una sconfitta, ma anche quella derivante dal rimorso; e (last but not least) oltre alla sofferenza subita c’è anche quella inferta ad altri (volontariamente o involontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente). E si potrebbe continuare, fino ad arrivare a quella finale, decisiva, che condiziona tutte le altre: la prospettiva della morte.  

Sotto questo profilo la sofferenza è un privilegio umano, perché è il corrispettivo della nostra consapevolezza di esserci, ed è la conseguenza ovvia dello sforzo per salvaguardare e rafforzare questo nostro esserci, col fondato timore che qualcosa o qualcuno possa aggredirlo fino a distruggerlo. Ma se è un privilegio, viene da chiedersi se sia opportuno cercare di elaborare strategie per lenirla, questa sofferenza.

Siccome però si tratta di un privilegio costoso, giusto o sbagliato che sia (qui ognuno può pensarla come vuole) di fatto gli umani da sempre hanno elaborato strategie articolate per affrontare la sofferenza, nelle sue diverse manifestazioni. Si comincia con la mamma che asciuga le lacrime del suo bambino, si prosegue col papà che cerca di spiegargliela, e così fargli accettare in qualche modo l’ineluttabilità della sofferenza; interviene poi la scuola, che illustra come è fatto il “mondo” con la connessa sofferenza; quindi i ministri delle varie religioni ne propongono un senso, che la renda più accettabile; ci sono poi gli amici del “gruppo dei pari”, con i quali si fa un decisivo esercizio di gratificazione ma anche (e forse soprattutto) di sofferenza; e infine i terapeuti del corpo e della psiche intervengono a turare le eventuali (ma probabilissime) falle che possono aprirsi.

Ricordare tutta questa articolazione non è un esercizio pleonastico, perché serve a relativizzare il ruolo del terapeuta in un mondo come quello odierno in cui quest’ultimo, in quanto portatore di conoscenze tecnico-scientifiche, tende ad acquisire una centralità sproporzionata. E di conseguenza, tende ad essere gravato da compiti e aspettative che difficilmente sarebbe in grado di assolvere.

Nel nostro mondo occidentale secolarizzato, infatti, la spiegazione e la giustificazione della sofferenza, e quindi la consolazione lenitiva non sono più affidate alle religioni. E’ vero che oggi è ancora massiccia la frequentazione dei santuari taumaturgici: da Lourdes a S. Antonio da Padova, da S. Pio da Pietrelcina a S. Gerardo Maiella, da Montserrat a Pompei e a Medjugorje, e così via. Ma si tratta di forme di religiosità popolare che attraversano, rimanendo più o meno sempre eguali a se stesse, i tempi e le fasi della storia, provengono dai culti storicamente più risalenti che si ripropongono ancora oggi, solo con diverso nome, e testimoniano del bisogno permanente di protezione genitoriale da parte di grandi masse popolari, in ogni parte del mondo (con buona pace degli ideologi “democratici” di tutti i tempi). Cosa che naturalmente non deve compromettere il più grande rispetto dovuto alla religiosità personale sincera delle anime semplici.  

Ma anche queste forme di religiosità iper-tradizionali oggi spesso cercano l’appoggio e la conferma da parte del totem dei nostri giorni, la scienza: basti pensare che uno dei santuari taumaturgici ancor oggi più frequentati, quello dove ha vissuto a lungo Padre Pio, è affiancato da un grande ospedale modernissimo, non a caso intitolato al “sollievo della sofferenza”.

Oggi tutte le forme di sapere aspirano a farsi chiamare “scienza” perché questo è il titolo che conferisce loro il massimo prestigio. Giustamente, si dirà: perché la scienza, la επιστέμη dei greci, è prodotto tra i più elevati della mente umana. Ma la scienza intesa come επιστέμη è il prodotto dell’applicazione del ragionamento rigoroso ai dati tratti dall’esperienza: cioè è la lettura della “realtà” quale appare a tutti noi attraverso i fenomeni, resa però intersoggettivamente condivisibile in quanto depurata dagli elementi di casualità e di soggettivismo che ne rendono inattendibile la versione quotidiana dell’uomo della strada. E questo tipo di scienza comprendeva per i greci anche la filosofia, perché non lasciava da parte né l’indagine sui suoi criteri di attendibilità, né quella sul senso dell’immagine del mondo che ne derivava. Ecco perché dopo duemilacinquecento anni continuiamo a scavare nel pensiero dei greci per ricavarne insegnamenti.

Il totem dei nostri giorni è invece un’altra cosa. Esso affonda le sue radici nella geniale intuizione di scienziati e filosofi del XVII secolo, di dedicarsi all’indagine empirico-razionale delle cause dei fenomeni (indagine filosoficamente fondata, di fatto, su un’ontologia di senso comune, quella che gli scienziati odierni chiamano pomposamente “naturalismo”), lasciando da parte l’indagine sulle condizioni di attendibilità e sul senso della costruzione intellettuale del mondo, quale da tutto ciò finisce per derivare.

Questa costruzione anti-teleologica del mondo (il quale non a caso ha finito per essere visto, almeno in una prima fase, come un’immensa macchina) ha avuto un successo strepitoso, quale i suoi primi fautori probabilmente non immaginavano nemmeno. Successo che nel giro di due secoli, fra l’inizio del XVII e quello del XIX, ha capovolto il rapporto di credibilità fra la scienza e le sue istituzioni, da un lato, e la religione e le sue, dall’altro. Finché la rivoluzione industriale non avrebbe innescato, per la prima volta nella storia, un processo di stimolazione reciproca tra scienza e tecnologia, destinato a capovolgere il tradizionale dominio della natura sull’uomo nel suo contrario. I cui effetti costituiscono il terreno su cui camminiamo ogni giorno tutti noi.

Oggi questo processo suscita in molti un crescente disagio, se non addirittura angoscia, di fronte al rischio incombente di trasformazioni radicali, incalcolabili e ingovernabili, del contesto di vita che il genere umano ha conosciuto finora. Ma questo non ha (ancora) dissolto presso l’opinione pubblica l’aura sacrale che circonda il sapere scientifico e colloca i suoi presunti portatori sul livello di credibilità sociale più elevato.

In questo contesto i terapeuti del corpo e della mente si trovano in una posizione molto particolare. Il rapporto con i loro interlocutori sociali privilegiati, i cosiddetti pazienti, è basato su una serie di aspettative reciproche che tutti sanno essere sostanzialmente infondate, il che però non impedisce loro di comportarsi come se esse potessero e dovessero essere rispettate.  

Medici e psicoterapeuti infatti si fanno forti del prestigio che dovrebbe derivare loro dalla scienza; la quale a sua volta, secondo un’opinione scontata, perseguirebbe la “verità”, o quantomeno avrebbe i titoli per avvicinarcisi più di qualunque altra pratica sociale. E su questo prestigio si fonda il loro rapporto biopolitico (Foucault) con i pazienti.

Si dà il caso però che la scienza consista in un insieme di teorie “vere” che però non perseguono la “verità”. Infatti esse sono “vere” perché consistono in elaborazioni fondate su protocolli a loro volta derivanti da esperienze effettive, e valgono se e finché non saranno messe in crisi da ulteriori esperienze che costringano gli scienziati a nuove elaborazioni. Ma nessuna di queste elaborazioni ha titolo per essere considerata sia pure soltanto un passo avanti verso una “verità” che si pretenda esistere dietro i fenomeni con cui ce la dobbiamo vedere tutti i giorni, verità che sarebbe in attesa di essere “svelata” da qualche sacerdote della conoscenza. Questa “verità” infatti esiste solo nella mente degli ontologi, e oltre a essere indimostrabile, si dà il caso che venga sistematicamente smentita nella pratica della ricerca scientifica, laddove giorno per giorno vengono sgretolandosi e perdendo consistenza oggettiva componenti essenziali di questa realtà ontologica (pensiamo per esempio alla fine che ha fatto il “tempo” nella sua tradizionale concezione newtoniana). Il “mondo”, cioè il tutto, comunque ontologicamente concepito, come “macchina” ovvero come “organismo”, si frantuma tra le mani di chi cerca heideggerianamente di “svelarlo”.

In questa situazione, la garanzia di scientificità viene cercata, comprensibilmente, nel restare quanto più possibile vicino ai protocolli, e quindi alle esperienze specifiche. Questo spiega, tra l’altro, l’irresistibile tendenza della medicina “scientifica” alla frammentazione specialistica, e quindi all’allontanamento del medico da quel rapporto “umano” col paziente che invece i filosofi moralisti invocano per migliorare la qualità della funzione terapeutica.

In effetti, per rapporto “umano” qui in pratica si intende quello che i sociologi chiamano rapporto “primario”: ossia quello faccia-a-faccia in cui i due attori sociali si considerano reciprocamente nelle rispettive integralità, quindi portandovi le loro personalità, i loro vissuti, così come normalmente avviene tra amici e persone di famiglia. Qualcosa del genere avveniva in passato con la figura del medico condotto di paese, che viveva paternalisticamente il rapporto con i suoi pazienti, di ciascuno dei quali egli conosceva il retroterra di vita. 

Ma questo era appunto possibile all’interno di una struttura sociale di tipo comunitario, che oggi tende a dissolversi anche nelle zone rurali; figurarsi nelle realtà urbane predominanti nelle società industriali e post-industriali, in cui i rapporti prevalenti non sono quelli primari, faccia-a-faccia, bensì quelli “secondari”: rapporti in cui ciascuno si presenta con un ruolo specifico, complementare rispetto a quello dell’altro, e quindi si aspetta dall’altro un comportamento coerente con quel ruolo, una prestazione determinata, che del resto costituisce il motivo stesso dell’incontro. Tra questi ovviamente rientrano i rapporti professionali.

In quest’ultimo tipo di rapporto i vissuti dei due attori sono scarsamente rilevanti in linea di principio, a meno che alcuni loro aspetti non lo diventino proprio ai fini della prestazione oggetto del rapporto. Per esempio, il medico può chiedere al paziente un’anamnesi, utile per chiarire aspetti rilevanti della fattispecie in esame: e solo a questo fine può diventare importante parlare dei gusti alimentari, o delle abitudini sessuali, o di eventuali traumi infantili, o del rapporto con animali domestici, o altro. Mentre a sua volta il medico terrà a tranquillizzare il paziente sotto il profilo della propria competenza, magari ostentando alle pareti dello studio il maggior numero possibile di diplomi e attestati professionali. 

In contesti sociali in cui la transizione dalla campagna alla città è avvenuta di recente, e anche la città non è caratterizzata dalla decisiva presenza di una borghesia urbana di antica tradizione (come per lo più avviene ancor oggi in Italia meridionale), spesso sopravvivono modelli culturali di natura comunitaria in contesti urbani. E quindi sopravvive la tendenza a favorire modelli di tipo primario anche in rapporti che invece ne richiederebbero di tipo secondario. Questo tende a essere scambiato per umanizzazione del rapporto. Mentre invece dà luogo a una sua qualità deteriore, perché all’interno di un’organizzazione burocratica formalizzata il medico che si dilunga a parlare di fatti personali, propri o del paziente, irrilevanti ai fini della terapia infastidisce giustamente gli altri pazienti in coda, e magari suscita sospetti di ingiusti favoritismi quando non addirittura di forme di clientelismo.  

Si dirà: ma forse è proprio l’organizzazione burocratica a costituire il problema. Si risponde: no, non è l’organizzazione burocratica, con la sua razionalità e la sua adeguatezza a una società egualitaria, a essere disumanizzante. Bensì lo sono le sue défaillances dovute a forme di personalismo, clientelismo, corruzione e concussione, lassismo, abuso d’ufficio e altro: ossia in pratica a sopravvivenze di modelli imperfettamente “secondari”. I colpevoli sono i cattivi attori che gestiscono l’organizzazione, i quali possono trovarsi a qualunque livello, dal direttore generale all’ultimo ausiliario. E quindi a rendere “disumano” il rapporto medico-paziente non sono i medici-burocrati, ma i medici corrivi o addirittura corrotti.

Basti pensare a una piccola innovazione tipicamente burocratica, che è stata recentemente introdotta in forma generalizzata nelle sale d’aspetto degli ambulatori medici e degli uffici pubblici: la chiamata dei clienti allo sportello in base al numero d’ordine contenuto nel bigliettino staccato da ciascuno all’ingresso. In questo caso la logica burocratica ha migliorato, umanizzandola, la vita dei clienti e quella degli addetti. E questo discorso vale per tutta la burocrazia: che, come ha dimostrato Max Weber, è la forma di organizzazione più adatta a garantire efficienza del servizio ed eguaglianza di trattamento in una società di massa.

Certamente, in linea di principio il rapporto medico-paziente non può che soffrire dalla parcellizzazione del trattamento (che peraltro abbiamo visto essere conseguenza inevitabile del “progresso” della scienza). E questo è vero perché una considerazione olistica del disagio del paziente permetterebbe di personalizzare la terapia rendendola più efficace. E nel nostro tempo molti pazienti, intuendo più o meno chiaramente questo problema, si rivolgono a medicine alternative a quella “scientifica”: per esempio l’omeopatica, l’ayurvedica, la cinese, la pranoterapia o altre. In questi casi però non è tanto l’atteggiamento del medico che cambia, quanto il tipo di sapere che viene utilizzato, il quale per lo più parte da un’immagine dell’essere umano discendente da un’intuizione religiosa, e pertanto ha meno bisogno di rincorrere i protocolli di esperienza, per essere credibile. La sua credibilità è data per scontata dal paziente che decide di crederci. E il fatto che queste pratiche abbiano anche una serie di successi non costituisce una prova della loro fondatezza, perché tutte le pratiche magico-religiose, in ogni tempo e luogo, hanno avuto riscontri positivi.

Casomai, questi riscontri potrebbero suggerirci un atteggiamento più prudente e scettico anche verso la medicina ufficiale: non per fare i nichilisti a buon mercato, ma per mettere un freno alla deriva di medicalizzazione universale che imperversa nella nostra società occidentale, e che è una delle principali fonti di disumanizzazione della nostra vita.  

I comportamenti umani e le strutture sociali di fronte alla sofferenza. Uno sguardo sociologico clinico

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