di Remo SIZA
(estratto dall’Introduzione)
Il welfare sta diventando sempre meno un ambito d’intervento inclusivo, che crea legami e coesione sociale; è utilizzato frequentemente per distinguere, escludere, sanzionare comportamenti irregolari e per affermare una visione del mondo che legittima esclusioni sociali più o meno estese. In molti suoi ambiti – in particolare, i servizi alla persona, le misure di contrasto di povertà, le politiche abitative – le prestazioni di welfare sono utilizzate troppo frequentemente per dividere e separare le persone meritevoli di aiuto dalle persone che non si comportano in modo responsabile, per escludere gruppi minoritari e sostenere generosamente gruppi sociali più rappresentativi. Le configurazioni di welfare che emergono riattualizzano distinzioni che operatori e cittadini avevano reso obsoleti, quella tra poveri ritenuti meritevoli (deserving poor), vittime incolpevoli di circostanze e di crisi di carattere collettivo; e poveri i cui valori e comportamenti moralmente riprovevoli (undeserving poor) sono ritenuti la causa primaria del loro stato. Su questa base si differenzia la qualità delle prestazioni di welfare e si valuta il senso degli interventi e degli operatori sociali che li erogano. Il “welfare condizionale” e il “welfare chauvinism sono le due configurazioni prevalenti di questo sistema di interventi sociali sempre meno inclusivo. In primo luogo la condizionalità, fondata sul principio che non esistono diritti acquisiti una volta per tutti dalle persone. Il diritto delle persone a ricevere un sostegno economico dipende dal loro comportamento. Le responsabilità diventano individuali e si attribuisce scarsa rilevanza alle più ampie responsabilità sociali derivanti da scelte strutturali, da modelli di sviluppo sempre meno inclusivi (Watts e Fitzpatrick 2018; Watts, Fitzpatrick, Bramley e Watkins 2014), Una seconda configurazione è costituita dal “welfare chauvinism” (Andersen and Bjørklund 1990; Schumacher and Van Kersbergen 2016; Greve 2019). Il termine è comunemente utilizzato per definire una configurazione di welfare che limita l’accesso ai sussidi o riduce il livello di benefici per gli immigrati, introduce più selezioni e misure basate sulla condizionalità per le minoranze etniche e i gruppi ritenuti tradizionalmente non meritevoli, le persone i cui valori e comportamenti sono considerati la causa primaria della loro condizione. I tagli alla spesa pubblica devono essere limitati esclusivamente ai benefici e agli interventi destinati a questi gruppi minoritari. Il welfare ha avuto un ruolo importante nel promuovere integrazione sociale senza discriminazioni e distinzioni, nel contrastare l’esclusione sociale: negli anni passati, operatori, associazioni, enti locali affermavano la necessità di “partire dagli ultimi”, partire dalle loro esigenze e dalla loro capacità di accesso ai servizi. In questi anni, il rischio è che progressivamente l’accesso ai servizi pubblici non sia più un diritto, ma dipenda dal gruppo etnico, dalla moralità, dal rispetto delle regole e dal senso di responsabilità del beneficiario sia esso una persona senza dimora o un immigrato. Per molte istituzioni esistono solo cause individuali del degrado e delle povertà estreme, solo comportamenti individuali irregolari che bisogna risolvere e affrontare con decisione e rapidamente con interventi securitari, sanzioni e controlli prima che incidano drammaticamente sulla vivibilità dei centri urbani. In questi anni Il welfare diventa una sfera di vita in cui molti governi e molti partiti politici cercano di ricostruire le distinzioni della maggioranza delle persone rispetto ad altri gruppi sociali più deprivati, stabilendo e legittimando le differenze e le separazioni. La responsabilizzazione non è più un obiettivo della relazione di cura, ma diventa un requisito di accesso alle misure di welfare. I comportamenti dei beneficiari diventano decisivi nell’erogazione delle prestazioni e nella costruzione dei loro diritti. Il welfare diventa sempre meno sociale, le attenzioni, le sensibilità sociali che per decenni l’hanno contraddistinto diventano marginali, troppo lente rispetto al crescente dinamismo delle attuali società oppure non conformi a regole procedurali, comunque superate dai nuovi modi di intendere le relazioni fra le persone. L’ambito del lavoro sociale perde specificità e diventa un’area di intervento come tante altre orientato da tempi e principi dell’economico, dell’organizzazione amministrativa, dalle esigenze ineludibili della competizione e del mercato del lavoro.
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