di Everardo Minardi
1. Uno dei dilemmi della sociologia contemporanea
Il diffondersi e l’intensificarsi di una percezione della complessità sociale che spinge a leggere i fenomeni sociali come minacciosi, fonti di ingovernabilità e di ingestibilità dei processi – decisionali organizzativi e di crisis management – ripropongono puntualmente la mai risolte debolezze paradigmatiche della sociologia, la sua incompiutezza metodologica e l’irresolutezza pragmatica.
Le crisi sociali di cui siamo testimoni – le disuguaglianze economiche e sociali tra nord e sud del pianeta, il terrorismo, la radicalizzazione dei conflitti politici, i localismi ed i particolarismi esasperati, l’ingovernabilità dei sistemi economici e politici nel medio-lungo termine, ecc. – alimentano, pertanto, la percezione collettiva di un’eccedenza delle sfide con cui la sociologia e le scienze sociali in genere devono misurarsi.
Gli stessi operatori delle scienze sociali sembrerebbero non avere via di scampo e lo “stato di salute” delle predette discipline ne risulta, giocoforza, pesantemente condizionato. La varietà delle manifestazioni di “crisi sociale” che si propone alla diagnosi ed alle strategie di intervento degli operatori delle scienze sociali, inoltre, si distribuisce tra livelli che non coinvolgono più solo la dimensione macro sociologica (degli aggregati sociali, delle istituzioni e delle organizzazioni), ma penetrano nel cuore delle relazioni sociali. Ne vengono travolti i processi di riproduzione delle immagini, delle rappresentazioni e delle elaborazioni sociali che rinnovano la sfera della relazionalità, della intersoggettività, della fiducia e, quindi, delle modalità dell’interazione e della comunicazione sociale.
In altre parole, la “crisi sociale”, osservabile attraverso l’instabilità dei sistemi a tutti i livelli (sia micro sia macro sociali) si traduce rapidamente e in maniera crescente in deficit di soggettività ed intersoggettività, in stati di patologie spesso non riconosciute e non dichiarate le quali, tuttavia, incidono sulla dimensione del well-being. Una dimensione che non necessariamente si riconduce ai sistemi del Welfare, per la trattazione delle sue distonie e dei suoi deficit.
Viene, allora, da chiedersi: come affronta la Sociologia questi processi di cambiamento sociale, spesso silenziosi e non sempre visibili? La risposta è che la sociologia nel suo establishment epistemologico e metodologico, purtroppo, appare come una istituzione bloccata, una dimensione di conoscenza fortemente presa da una riflessività autoreferenziale, impegnata nella ricerca delle condizioni di una professionalizzazione che non arriva, incapace di fronteggiare una debolezza di status anche scientifico che tende ad aumentare.
Nel frattempo, pur partendo da background conoscitivi e formativi squisitamente sociologici, tendono ad affermarsi logiche e percorsi di agire, esplicitamente professionali, inediti ed orientati sia al campo macro sociale sia a quello micro sociale: dal counseling relazionale a quello comunicativo, dall’azione per la facilitazione della gestione della innovazione al training delle risorse umane, dall’empowerment al management della innovazione applicata nei più diversi contesti.
Tali logiche di azione professionale, in quanto orientate all’individuazione ed alla costruzione delle componenti tecniche di software professionali evolute, rischiano di svuotare i contenuti critico-riflessivi della sociologia come matrice disciplinare di base.
L’immagine e il ruolo delle scienze sociali vengono, così, riproposti come elementi costitutivi di una nuova “ingegneria sociale”, liberata dalle incrostazioni ideologiche di cui le scienze sociali sono state vittime fin dalle loro origini ottocentesche. In realtà, è proprio questo il dilemma più forte in cui si trova intrappolata la sociologia oggi: la tensione tra una riflessività autoreferenziale che ne mina l’attendibilità e la logica del tutto esteriorizzante di un agire tecnico professionale che cerca, nella costruzione di procedure problem solving, la chiave della propria persistenza, se non del proprio successo.
2. La modulazione di un sapere applicativo, centrato sugli attori del problema sociale
È sul terreno propriamente istituzionale ed accademico che occorre affrontare il nodo del dilemma in cui la Sociologia si trova coinvolta, ri-focalizzando i termini di una scienza che trova nella crescita e nella legittimazione di un sapere applicativo le ragioni del proprio sviluppo. Un sapere certamente fatto di auto riflessività epistemologica e metodologica, ma anche di progressività e di flessibilità nella costruzione delle proprie “scatole degli attrezzi”.
La scatola degli attrezzi, come si sa, contiene strumenti convenzionali noti a tutti, ma anche qualcosa di magico e di misterioso che è proprio di colui che ne ha la proprietà esclusiva. Avviene così anche nei confronti del sociologo o “dell’operatore sociologico” – come lo chiamava Luciano Gallino – il quale, attraverso un linguaggio spesso criptico e una metodologia altrettanto esclusiva (di cui sempre si difende la differenza rispetto ai metodi ed alle tecniche delle altre scienze sociali), configura un sapere, oltre le soglie della meta-fisica, definibile per mezzo di categorie e tipologie, in un certo senso, “meta-sociali”.
In altri termini, si afferma un paradigma metodologico fondamentale nel lavoro di analisi e di diagnosi dell’operatore sociologico: quello che consiste nell’unicità, o meglio, nell’esclusività del suo “punto di vista”. Il sociologo analizza ed interpreta un fenomeno sociale – fatto di relazionalità tra soggetti sociali – ipotizza, immagina, rappresenta le ragioni e le logiche delle azioni sociali, anche delle relazioni intersoggettive, ma senza mai abbandonare il proprio punto di vista; ciò che sicuramente non viene mai messo in discussione, infatti, è proprio il punto di vista – pur relativo, incompiuto, instabile come ci ha insegnato Max Weber – che viene inteso come un saldo punto di partenza per l’elaborazione di sofisticate indagini sociali con le quali non si esclude di poter intervenire e cambiare il/i contesto/i sociale/i a cui ci si riferisce.
In questo assunto paradigmatico sta forse il punto di debolezza del sapere sociologico. Seppur significativamente capace di giustificare e validare sé stesso nel corpo della sua dottrina, esso non riesce, tuttavia, a tradursi altrettanto significativamente in un sapere pratico, applicativo e che – in quanto tale – sia capace di interagire con altri punti di vista, di immedesimarsi in essi, ovvero di adottare punti di vista “altri”, diversi da quello in cui si riconosce quotidianamente il lavoro del sociologo.
Finché questo cambiamento di prospettiva, questa capacità di adottare altri punti di vista – senza negare, ovviamente, il proprio soggettivo – non si affermerà al punto di modificare il percorso di analisi, di diagnosi e di progettazione dell’intervento sociale (per la risoluzione dei problemi propri dei soggetti sociali e delle persone osservati), non si riusciranno a superare i dilemmi della Sociologia, la sua irresolutezza di fronte alla sollecitazione critica ad una riflessività in verticale, che le viene costantemente richiesta da un lato; e alla domanda di sviluppare una vera e propria logica di azione professionale dall’altro.
3. La diversa origine e missione della sociologia clinica
All’operatore sociologico occorre fare una scelta, per evitare di trovarsi permanentemente “in mezzo al guado”: accompagnare al proprio punto di vista il punto di vista degli attori sociali che si trovano al centro del problema sociale, oggetto di attenzione e di richiesta di intervento sociale.
Non si tratta soltanto di individuare nuove e diverse modalità applicative del sapere sociologico, in ciò supportato dal lavoro sociologico concreto ed intelligente di tanti operatori sociologici; bensì, di cambiare il punto di vista di partenza adottando quello “altro” – di colui o di coloro che, in quanto protagonisti o “vittime” del problema sociale in atto, sono i destinatari dell’intervento. Ciò tenendo presente che quello “altro” è, però, un punto di vista che richiede di essere in qualche modo superato, grazie all’azione congiunta di coloro che ne sono portatori (e, ovviamente, di coloro che sono invitati a fornire il counseling necessario per dare una risoluzione definitiva al particolare problema sociale).
Quando ciò avviene possiamo dire che ci troviamo in una dimensione di sociologia “clinica”; ossia, una sociologia che sa effettuare analisi, diagnosi e progettazione sociale a partire dal punto di vista del “protagonista”, in termini positivi o negativi, della situazione sociale complessa di cui è parte. Questa consapevolezza, però, non deve essere servire per legittimare l’ampliarsi del già affollato panorama degli approcci curativi o sanitari.
La sociologia clinica, non mira precipuamente a risolvere patologie o deficit di well-being a livello individuale o di gruppo (già sono evidenti le difficoltà dei sociologi ad operare nei confronti delle strategie e dei deficit di azione dei sistemi di Welfare!). La sociologia clinica, infatti, più che essere curativa o “sanitaria”, diviene una componente importante di quella partnership di attori, saperi sociali e competenze professionali che sono chiamati a fornire agli individui, ai gruppi sociali, alle organizzazioni di diverso genere (di produzione, di servizio o diversamente finalizzate), quegli strumenti cognitivi e quei percorsi riflessivi, di progettazione e gestione di azioni mirate a far crescere la “loro” capacità di affrontare i problemi da cui sono condizionati e che hanno necessità di superare.
Da qui, allora, la rilevanza teorica e metodologica della sociologia “clinica”, come possibilità di un empowerment significativo della capacità analitica, diagnostica e progettuale di una sociologia non chiusa in sé stessa, ossia solo preoccupata di convalidare le proprie acquisizioni, le proprie categorie, le proprie strumentazioni. Ciò di cui si avverte la necessità, anche nel terreno della professionalizzazione del lavoro sociologico, è l’esigenza di poter osservare e valutare la ricaduta sociale della conoscenza sociologica, alla sua utilità sociale; un requisito questo che proprio la sociologia delle professioni ha identificato, sin dalla sua costituzione, come essenziale per definire la costruzione sociale delle identità professionali.
La sociologia clinica, quindi, nel momento in cui concentra le sue attenzioni sulle diverse componenti culturali, sociali, del fenomeno sociale – assunto come centro di conoscenza e di cambiamento sociale – si configura come un sapere aperto, evolutivo. Un sapere, cioè, orientato dalla sua riflessività interna, ma anche dalla capacità di interagire e di acquisire nuove conoscenze dalla pratica dell’intervento e del cambiamento sociale, con la partecipazione diretta, attiva e non mediata degli attori sociali protagonisti del contesto clinico di intervento sociale.
Ciò spiega, in parte, perché chi giunge sul terreno della sociologia clinica lo fa non sulla base di interrogativi di natura epistemologica o metodologica; ma, piuttosto, di natura “pratica” pressato, più che da imperativi di carattere conoscitivo e/o scientifico, dalla necessità di risolvere problemi, di restituire ai soggetti ed ai gruppi sociali osservati condizioni per il benessere di tipo mentale, relazionale ed ambientale.
Nei confronti di questi percorsi di lavoro sociologico, tuttavia, non si può adottare un atteggiamento squalificante, quello di chi, per intenderci, superficialmente coglie solo una sorta di riduzione o di semplificazione della conoscenza sociologica, con la sua conseguente negazione della qualità di sapere scientifico.
È necessario, semmai, valutare con attenzione gli scenari che, l’apertura di questi percorsi – in un certo senso “anomali” – rendono possibili con l’acquisizione di dati ed esperienze di pratica sociologica per la crescita della conoscenza sociologica. È necessario, inoltre, individuare quali innovazioni si vanno a sperimentare nel campo delicato della metodologia sociologica, con la costruzione di nuovi strumenti e tecniche di diagnosi, progettazione e di valutazione degli out-put degli interventi sociali.
Concludendo, con questa evoluzione tesa verso i bordi della “clinica sociale”, la Sociologia ha di fronte a sé una nuova sfida da affrontare e da vincere. Non è certamente la prima, né l’ultima; ma, riflettendo in retrospettiva, solo al formidabile ed innovativo lavoro di invenzione ed innovazione teorica e metodologica fatto dalla Scuola di Chicago, le risorse “interne” alla disciplina ed alla comunità scientifica che la presiede sono enormi e, forse, ancora un po’ colpevolmente trascurate.
Tale sfida può essere raccolta, se non dalle istituzioni accademiche, da tanti operatori sociologici che operano all’interno di istituzioni pubbliche, di imprese sociali, di organismi non profit e del volontariato sociale, non per invalidare ciò che la tradizione sociologica – secondo l’espressione di R. Nisbet – ci ha consegnato ma, piuttosto, per farla crescere e sviluppare lungo i percorsi di una modernizzazione economica e sociale fortemente cambiata nelle istituzioni, nelle regole e nelle rappresentazioni sociali.