Intervista ad Everardo Minardi nella trasmissione “Il disagio nella civiltà” di Radio Onda d’Urto
A cura di Gianluca Piscitelli
Nel contesto storico-sociale che stiamo “abitando” e vivendo, sembra che il “detto” sia disancorato da una riflessione capace di raccogliere un ampio consenso, da un “contenuto” che sia unanimemente condiviso e che, pertanto, crei valore. Se aumentano le occasioni per “dire” non necessariamente si affinala capacità di ascoltare, come se il dialogo non creasse le premesse per condividere, bensì si innalzasse un muro di parole che isola ancor di più le persone invece di farle incontrare. Non si fanno più cose con le parole(tanto per parafrasare un celebre linguista),ovvero anche ciò che con esse viene creato è destinato ad essere consumato e quanto prima distrutto. Che ne è allora della nostra soggettività e della nostra capacità di contribuire al cambiamento del mondo se la parola che le struttura perde valore e non contribuisce a costruire, ancor prima di rappresentare, il legame sociale? Quale contributo può dare la sociologia alla presa in cari-co del disagio contemporaneo, e la sociologa clinica in particolare?
Su questi temi di scottante attualità lo scorso 22 giugno 2019 è andata in onda sulle frequenze di Radio Onda d’Urto un’intervista al Prof. Everardo Minardi nell’ambito della trasmissione settimanale Il disagio nella civiltà(www.disagio.radiondadurto.org), che tratta il tema dei linguaggi e della crisi della parola, condotta dai sociologi clinici Paolo Patuelli e Giuseppe Ricca, con la partecipazione di Manuel Colosio, redattore dell’emittente radiofonica.
Paolo Patuelli: E’ indiscutibile il fatto che la parola al giorno d’oggi è in seria difficoltà. Con ciò vogliamo dire che è davvero difficile dire qualcosa che lasci il segno. Ecco perché ci sembra opportuno trattare il tema dei linguaggi. Nel corso del tempo, la sociologia è stata come un faro per l’opinione pubblica, nel definire, illuminare dei concetti. Si pensi, ad esempio, a quello fortunatissimo di Bauman quando parla di “società liquida”. Sembra, però, che sia scomparsa la possibilità di un linguaggio autorevole; le parole sono ridondanti. Anche in sociologia.
Everardo Minardi: Dobbiamo ricordare che, in primo luogo, nella tradizione la lingua, il linguaggio era un modo attraverso il quale si costruiva la persona, si strutturava la personalità. La si rendeva visibile, esperibile anche all’esterno. Attraverso il linguaggio si costruiva la relazione sociale; tant’è che si poteva distinguere un linguaggio che apparteneva alle persone in quanto comunità d’affetti; un linguaggio che veniva usato nei rapporti con terzi; e c’era il linguaggio che si manifestava con le istituzioni, con le organizzazioni, con quei sistemi che rappresentava non solo qualcosa che era altro da sé ma che veniva percepito come qualcosa al di sopra di sé. Ogni linguaggio aveva il suo codice di riferimento, le sue parole chiave, le sue espressioni che rappresentavano qualcosa di più rispetto al casuale, all’occasionale. Ovviamente, un discorso a parte meriterebbero i dialetti che rappresentano un altro modo peculiare d’esprimersi. Quando parliamo di linguaggio, pertanto, ci riferiamo innanzitutto a qualcosa di intra-familiare oppure di comunità. Al linguaggio è poi accaduto qualcosa di rivoluzionario; ora sappiamo, infatti, che il linguaggio non è fatto più solo di parola, di comunicazione interpersonale ma anche di mediazione. Sono i media che strutturano il linguaggio che generano un nuovo linguaggio. E i “media” che ora sono anche “social” impongono la nostra partecipazione. Non è più come una volta, quando si ascoltava o vedeva passivamente. Oggi non si sta più ad assistere il linguaggio degli altri, le immagini degli altri, ma ognuno cerca di costruire autonomamente il proprio linguaggio, le proprie immagini, le proprie modalità di comunicazione. Modalità che diventano interattive, sbrigative, soprattutto veloci, in ciò riflettendo ciò che è diventa-ta la nostra società: la società della velocità, della rapidità. Qualsiasi cosa deve poter essere trasferibile con immediatezza. Il risultato di tutto ciò è che il messaggio non è più un’istituzione socia-le come era nel passato, tant’è che la scuola una volta sanciva il livello di proprietà di linguaggio, della lingua italiana. Oggi il linguaggio non ha più un codice che appartiene a tutti. Complice anche la tecnologia, oggi il linguaggio si produce, si consuma e si distrugge in un modo impressionante.
“La promessa, l’impegno, la relazione oggi non hanno più una stabilità e ciò non è legato tanto a fattori psicologici, personali, intra-personali ma, piuttosto, alla percezione che abbiamo dell’ambiente esterno”
Manuel Colosio: Se il linguaggio cambia con questa velocità, quali sono le conseguenze sui legami sociali tra le persone, tra di noi? Siamo sempre più individualisti?
E.M.: Una delle conseguenze è l’espansione dell’incertezza. Una volta il linguaggio era quello della promessa, dell’impegno, della relazione. La promessa, l’impegno, la relazione oggi non han-no più una stabilità e ciò non è legato tanto a fattori psicologici, personali, intra-personali ma, piuttosto, alla percezione che abbiamo dell’ambiente esterno. Una percezione che una volta era stimolata dal contatto diretto con la realtà; mentre, adesso, la presenza pervasiva dei media, la mediatizzazione, e di un linguaggio dagli stessi condizionato e divenuto più astratto, non ci da più quel senso immediato che avevamo della realtà. E così facciamo più fatica a comprendere il senso che gli altri danno alle cose, a ciò che accade nel mondo. Più soli di quanto lo fossimo solo pochi de-cenni fa, abbiamo anche perso il gusto di conseguire un qualche primato, di spingerci oltre gli an-gusti confini della nostra individualità.
Giuseppe Ricca: Prendiamo il tema della complessità, riguardo al quale la sociologia riesce a esprimere la sua capacità diagnostica. Come sociologo clinico sono legato al paradigma della dia-gnosi e credo che la sociologia sia in grado di farne. Il tema della complessità rinvia al problema del linguaggio nel senso che la mediatizzazione a cui accennava poc’anzi magari rende possibile un dialogo ma non la comunicazione. E questo anche perché ciò che ha portato alla de-costruzione del linguaggio fatto con la parola e l’utilizzo prevalente di immagini nel dialogo. Pertanto, come viene affrontato la complessità dalla sociologia, soprattutto se si considera l’abuso che da più voci si fa del termine di “liquidità”. Alla fine, la “liquidità” cos’è? Una filosofia? Un paradigma? Cosa vuol dire oggi?
E.M.: La sociologia soffre ancora di una mancanza di visione integrale e unitaria perché non si si riesce ad affrancare dai vecchi paradigmi. La società viene ancora vista come un “corpo”, un organismo, soggetta a principi causali, funzionali. Una sorta di oggetto forte, unitario, rispetto al quale gli individui hanno una libertà che è direttamente proporzionale alle regole che conoscono del sistema. Ma oggi questa sociologia è morta. Benvenute, pertanto, le tante sociologie che sono emerse negli ultimi tempi, come una articolo di recente comparso su una rivista scientifica statunitense celebrava. Possiamo contare, quindi, su tanti modi di vedere la complessità sociale. La vecchia (possiamo a ragione dirlo) sociologia si impegnava nella riduzione della complessità; oggi, invece, la complessità è qualcosa che dobbiamo saper leggere perché ne partecipino noi stessi agli sviluppi. Ognuno di noi è fautore della complessità sociale. Come possiamo leggere quindi la complessità, da intendersi come nuova configurazione della società? Sicuramente, il proliferare di nuove sociologie ci invita ad osservare questa nuova configurazione sotto angolature diverse. Ciò che diventa problematico oggi è l’immediatezza, la velocità. Non si va più tanto per gradi nel rispetto delle norme. A ciò fa da positivo riscontro un’altra definizione oggi in voga per cui, quella in cui viviamo, sarebbe la società della leggerezza: le norme sono sempre meno vincolanti. Le istituzioni ci sono e non ci sono: per alcuni potremmo anche farne a meno. Continuando in questa approssimativa disamina delle diverse angolature a disposizione, c’è poi anche la definizione della società odierna come società della trasparenza. Cosa vuol dire? Vuoi dire che oggi tutti vediamo tutto, an-che cose che non vorremmo che gli altri vedessero. La trasparenza e la leggerezza rendono così la nostra società più partecipabile di quanto non si potesse pensare in un non lontano passato. La nostra poi sarebbe anche la società dell’apparenza, dove non importa quello che siamo ma l’importante è apparire agli altri così come noi pensiamo di poter essere, pur magari essendo consapevoli di essere ben diversi da ciò che cerchiamo di apparire. C’è, poi, la visione della nostra società come la società delle emozioni, cioè una società che rende possibile manifestarle. Le emozioni, difatti, erano qualcosa che stava talmente dentro la psicologia e la personalità degli individui
“Oggi, così, si è passati dai ‘fatti’ ai ‘sentimenti’, con la conseguenza che la società sembra diventata più orizzontale nel senso che non ci sono delle regole, delle istituzioni, che in una logica preventiva dell’ordine sociale mantengano il controllo della società”
per cui l’importante era proprio non farle apparire all’esterno, controllarle, in modo tale che gli altri non capissero esattamente ciò che in quel momento potevamo provare. Oggi, così, si è passati dai “fatti” ai “sentimenti”, con la conseguenza che la società sembra diventata più orizzontale nel senso che non ci sono delle regole, delle istituzioni, che in una logica preventiva dell’ordine sociale mantengano il controllo della società. C’è chi, allora, osservando questa orizzontalità sottolinea che siamo passati da una società con-fusa a una società fusa. Partendo anche da un approccio psicoanalitico alla questione c’è chi constata che la trasparenza, ala leggerezza ecc. non renderebbero più possibile l’rodine sociale. Se questo è vero, ecco che la complessità diventa la categoria che cerca di ricondurre ad una unitarietà le diverse definizioni che si danno della società non più configurabile in termini normativi, istituzionali, organizzativi. Dobbiamo vivere la società in un modo diverso e la sociologia pratica, applicata e perciò clinica afferma qualcosa di davvero impor-tante: dobbiamo partire dalle relazioni, da ciò che sta dentro le relazioni e cioè i disagi, i conflitti, ecc. ma anche le soddisfazioni e le costruzioni di senso che sviluppano a partire dalle relazioni sociali. Kliné vuol dire relazione e da qui il sociologo deve partire per fare le sue diagnosi come un compito dal quale non può più prescindere. C’è poi da tener presente che la complessità riduce il senso del “macro” e dà la possibilità di partire dal “micro”. Ma quando partiamo dal “micro” non dobbiamo mai dimenticare che il “micro” produce il “meso” e questo da senso al “macro”-sociale. Noi non riusciamo a capire profondamente la società perché non siamo ancora pienamente com-petenti nel tenere presente questa relazione tra micro-meso-macro sociale. Partire dalle emozioni, partire da quella che Achille Ardigò riprese da una non molto conosciuta filosofa husserliana, Edith Stein, e cioè l’empatia, e vedere come da ciò si possono costruire relazioni certo ma anche norme che dal micro influenzano il mese e poi a sua volta il macro; ciò fa sì che la complessità non mi spaventi più perché l’approccio clinico di cui ho bisogno, per fare tutto questo, mi fa capire quali sono le radici di ciò cha appare anche a livello macro sociale .
“Dobbiamo vivere la società in un modo diverso e la sociologia pratica, applicata e perciò clinica afferma qualcosa di davvero importante: dobbiamo partire dalle relazioni, da ciò che sta dentro le relazioni e cioè i disagi, i conflitti, ecc., ma anche le soddisfazioni e le costruzioni di senso che si sviluppano a partire dalle relazioni sociali”
P.P.: Io l’empatia la intendo come uno strumento d’ascolto. Alla radice dell’empatia, pertanto, metterei più l’ascolto. Che capacità ha oggi la sociologia di ascoltare? Che poi ciò sia all’interno di una dimensione relazionale a livello micro, meso o macro, resta il fatto di dove collocare questo sociologo che ascolta. E ciò per avere la idee abbastanza chiare da capire qual’è il disagio che va ad affrontare. Mi spiego meglio. Se seguiamo il ragionamento di uno dei sociologi più attenti alla contemporaneità, Alain Ehnrenberg, che si colloca nel filone della sociologia critica, ecco nel suo La meccanica delle passioni (Einaudi, 2019), si chiede: cosa va oggi più di moda nell’ambito della diagnostica? Le neuro-scienze danno una possibilità al sociologo clinico prima impensabile. Ma resta da chiedersi con quali linguaggi il sociologo si confronta nella relazione che può essere di tipo empatico o altro, dal momento che il ragionamento neuro-scientifico ha un appeal legato al fatto che l’attenzione allo stimolo-risposta ben si adegua a quell’immediatezza di cui parlavamo? Anche perché sta avanzando un altra sociologia, oltre a quelle che hai citato ed è la neuro-sociologia…
E.M.: Condivido. La sociologia così come accademicamente l’abbiamo ricevuta e riprodotta non è in grado di entrare nel merito delle situazioni “dense”, drammatiche che coinvolgono la sfera psicologica, relazionale essendo in grado di rendere conto delle distonie che nelle relazioni si manifestano. Certo il sociologo non fa lo psicologo, non fa il pedagogista. Quello che il sociologo può fare è andare alla radice di coloro che sono i soggetti, i protagonisti dei problemi sociali; e lo fa non tanto dando delle risposte di carattere interiore, psicologico, al soggetto o ai soggetti coinvolti. Ciò che il sociologo fa è amplificare la capacità riflessiva dei soggetti risvegliandone la consapevolezza riguardo al modo in cui hanno “costruito”, immagini, rappresentazioni, i propri comportamenti e le proprie relazioni; e al tipo di pratiche sociali che hanno messo in atto. Questa riflessione che trova risonanza nello spazio relazionale co-costruito col sociologo clinico consente il dispiegarsi di possibilità d’azione alternative, di “nuove” pratiche, di comportamenti diversi e più adeguati a risolvere i propri problemi. Il sociologo clinico può allora accompagnare il portatore di disagio, colui che denuncia un problema sociale, nell’elaborare nuove immagini, rappresentazioni, comportamenti e relazioni in modo da tentare di risolvere ora e prevenire quelle che poi si potrebbero presentare come ulteriori problematiche sociali o loro complicazioni. La scommessa sta nel risvegliare nel soggetto la consapevolezza di essere un protagonista della vita sociale e, pertanto, potenziare la sua capacità d’azione e di risoluzione dei suoi problemi sociali attraverso la partecipazione ad attività e realtà associative. E con ciò intendendo le associazioni, le cooperative, insomma tutte le organizzazioni della società civile. La risoluzione dei problemi sociali può essere, quindi, intesa come una forma particolare di innovazione sociale. Il sociologo, pertanto, aiuta i soggetti, gli attori sociali, a fare la diagnosi della propria situazione esistenziale e sociale, a capire quali sono gli elementi mancanti che possono essere messi in campo e a capire le strategie più adatte per cambiare le regole della vita sociale e collettiva. Si capisce bene, allora, che il lavoro del sociologo, del sociologo clinico, può integrarsi bene con quello svolto da altri operatori per cui l’integrazione tra più approcci può amplificare la “portata risolutiva” dei problemi dell’attore. Non si capisce bene, infatti, il perché di tanta difficoltà a relazionarsi con la disciplina psicologica. La Sociologia ha stabilito ponti con la filosofia, con l’economia, con il diritto, eccetera, ma sembra ancora scettica nei confronti della psicologia. Eppure ci sono molti punti d’incontro tra la psicologia sociale e la sociologia clinica che dovrebbero essere seriamente presi in considerazione. Se è ormai fuori discussione che è possibile produrre valore al di la del rapporto di scambio e di una visione della società basata sul mercato e sulla economia pubblica; se, cioè, è possibile produrre valore sulla base dell’empatia e, così, distinguendosi radicalmente da come la pensava Adam Smith, capiamo bene che siamo davanti a un modo davvero diverso di guardare all’economie e alla società rispetto al passato.
P.P.: Mi sembra di capire che sia possibile che lo sguardo sociologico possa posarsi su ciò che nella contemporaneità è identificabile in termini di disagio. Il fatto che non ci sia più una sociologia delle grandi narrazioni, delle grandi teorie, rivolta al passato e ci sia invece una visione più frammentata, e questo Minardi lo sottolinea bene, potrebbe mettere in gioco più voci e quindi più possibilità d’intervento.
G.R.: Dobbiamo guardarci bene dall’uso della “diagnosi”. Forse sarebbe il caso di rivendicare un ruolo della sociologia che sia sociologia della libertà perché un soggetto è libero nel momento in cui riesce a produrre un elemento di scarto dalla norma. Il meccanismo di identità e di identificazione in modo che quel soggetto sia unico e irripetibile.
P.P.: Resta poi da chiederci quale è il posizionamento dei professionisti della relazione riguardo, ad esempio, ai paradigmi della neurosociologia, declinazione della sociologia che personalmente critico fortemente. Difatti, la commistione tra neuroscienze e psicologia di stampo cognitivo, sfruttata spesso nell’ambito formativo delle professioni del sociale, a mio parere sta spingendo ad una ridefinizione del quadro istituzionale delle professioni delle relazioni d’aiuto con risvolti etici che richiedono una certa attenzione.
G.R.: Andrebbe anche sottolineato che se si pensa, anche sotto solo il profilo accademico, alla sociologia francese il tema della comunicazione o della contaminazione della sociologia con altri blocchi disciplinari non incontra la stessa rigidità riscontrabile da noi. Da noi si paga pegno riguardo al fatto che le professioni del sociale sembrano essere imbrigliate nel ‘discorso’ della medicina. La neurosociologia, evidentemente, richiama una paradigma medicalizzante che mette in relazione comportamento e sistema neuronale sul quale siamo invitati a riflettere.