Breve relazione sulle risposte ricevute
Possiamo distinguere diversi profili tra coloro che hanno risposto alla nostra Call-to-Action: i sociologi dipendenti rappresentano poco più di un terzo di coloro che hanno partecipato, con una prevalenza di donne (62%) rispetto agli uomini (38%). La metà dei sociologi dipendenti è composta anche da docenti universitari e di scuola mediasuperiore e, nello specifico, trattasi di dipendenti del ‘pubblico’; il 37% dei partecipanti alla Call-to-Action è dipendente di organizzazioni private, mentre il restante 13% lavora nel privato sociale.
I sociologi che svolgono la libera professione sono solo il 17% di coloro che hanno risposto, il 75% dei quali è di sesso maschile. Tra i membri del nostro Lab, si conta anche la presenza di laureati in sociologia ma che svolgono altre professioni (poco più del 4% di coloro che hanno risposto); mentre un altro 17% di coloro che hanno offerto un proprio contributo alla Call-to-Action è costituito da professionisti che non hanno una laurea in sociologia e non svolgono una professione/lavoro sociologici. I restanti sono studenti e disoccupati, la totalità dei quali sono di sesso femminile.
Hanno partecipato alla Call-to-Action in misura prevalente le donne (58%) rispetto agli uomini (42%). Pari la presenza di membri residenti nel Sud e nel Nord Italia (38%); il 24% invece è residente nel Centro Italia.
IL CONTESTO
La pandemia da COVID 19 in corso ha rappresentato e sta rappresentando un problema, come era prevedibile, maggiormente per i liberi professionisti che per i membri del nostro Lab svolgenti lavoro subordinato (questi per lo più a livello quadro/dirigenziale nel settore socio-sanitario e, pertanto, alle prese con le pressioni gestionali che l’attuale emergenza sanitaria impone). L’interruzione del rapporto di committenza si ripercuote sulle vite dei liberi professionisti sia in termini economici (in base ad un’inalterabile ‘linearità’ processuale: se non si eroga la prestazione non si fattura, se non si fattura non si incassa) sia in termini relazionali per le difficoltà che il distanziamento sociale impone anche riguardo alla gestione dei rapporti interpersonali a fini professionali e/o di mantenimento di un posizionamento strategico sul mercato. Quasi tutti dichiarano, comunque, di approfittare di questo periodo di inattività per l’aggiornamento professionale partecipando a webinar o dedicandosi alla lettura.
La tecnologia comunicativa a disposizione, sebbene sia vista come una risorsa insostituibile, non sembra poter rimpiazzare il contatto diretto umano e imporrebbe uno sforzo in più sul piano organizzativo, venendosi ad alterare i vecchi confini tra “spazio/tempo di lavoro” e “spazio/tempo dedicato ad altro”, ossia all’intrattenimento, al relax, alle relazioni intime di amicizia. Anche per gli studenti, appare intollerabile l’omologazione del tempo lavorativo o di studio con il tempo libero, mentre il proprio luogo di studio/lavoro si confonde o si sovrappone con quello dedicato alla privacy personale. Ovviamente, chi era già preparato all’uso dei relativamente nuovi strumenti di video-conferenza ne soffre ora di meno; mentre, ad esempio, per i sociologi in rapporto lavorativo subordinato – che svolgono attività di docenza tanto a livello universitario, quanto di scuola media superiore o altro – lo stress legato alla gestione del proprio ruolo professionale sembra essere notevolmente aumentato. Inoltre, le video-conferenze sono vissute come caotiche.
In linea generale, pur avendo apparentemente più tempo a disposizione questo sembra dilatato e si soffre la mancanza di strutturazione del tempo che rende problematica l’organizzazione delle attività lavorative e sociali. Si soffre, inoltre, la mancanza di poter mettere in gioco il corpo nella relazione: il contatto umano fisico, l’abbracciarsi. Il contatto virtuale attraverso lo schermo dei propri devices elettronici ostacolerebbe un’interazione soddisfacente se è vero che non si riesce a guardare tutti in viso, il silenzio e la gestualità vengono meno, per via anche di rumori di sottofondo: lacomunicazione sembrerebbe così seriamente compromessa.
I ‘TEMI’ EMERSI
Non stupisce, allora, che – sulla base del vissuto sopra brevemente accennato – uno dei temi forti che emerge dalle risposte ricevute a seguito della sollecitazione ad esprimere le proprie considerazioni in merito a quale tipo di contributo il sociologo professionale può offrire in condizioni di emergenza sanitaria e, più in generale di emergenza personale, individuale e collettiva, sia proprio quello della comunicazione/divulgazione.
Sarà anche a causa di una comunicazione pubblica poco serena e nell’ambito della quale, nelle ultime settimane, si sono scaricati tensioni politiche e conflitti interpretativi del fenomeno aventi per protagonisti epidemiologi e virologi – oltre ai rappresentanti politici ed istituzionali di diversa appartenenza – i membri del nostro Lab appaiono particolarmente propositivi in merito alle soluzioni da adottare. Ecco allora provenire da più partecipanti la proposta di istituire un programma radiofonico, in cui i sociologi potrebbero prestarsi all’ascolto del disagio, a denunciare il sorgere di fragilità psico-fisiche in fasce sempre più ampie della popolazione.
Anche l’intrattenimento radiofonico in chiave sociologica sembrerebbe auspicabile per far incontrare la riflessione sociologica e quella psicoanalitica su temi di attualitànei quali il sociologoclinico, in particolare, potrebbe intervenire in modo efficace. Una comunicazione, allora, per costruire luoghi nei quali diffondere il messaggio di una clinica possibile per il campo sociale, descrivere il presente e dare il supporto motivazionale ed aiutare a non disperdere le energie dell’individuo in una società liquida.
La comunicazione, quindi, non solo come ‘strumento di lavoro con l’utenza ma anche fattoreindispensabile per collaborare con le altre figure professionalicoinvolte nella relazione d’aiuto in mododa contribuire alla costruzione di un modello di socializzazione che sia scambio attivo di possibili e potenziali interazioni emotive positive. E che scoraggi il rischio che una cattiva ed inconsapevole informazione/presa di coscienza individuale possa alimentare spirali negative suscettibili di espandersi a livello collettivo.
Infine, la centralità della comunicazione per provocare un dibattito collettivo: è giusto cercare di tirar su il morale dei nostri interlocutori insistendo che “andrà tutto bene” e che prima o poi torneremo alla nostra vita di sempre? o non sarebbe meglio invece cominciare a cercare di far capire alle persone che la nostra vita di sempre era mal direzionata, immersa nell’illusione prometeica che la nostra scienza e la nostra tecnologia ci avrebbero fornito le difese appropriate contro qualunque aggressione da parte di una natura, che nel frattempo abbiamo brutalizzato illudendoci di signoreggiarla? Non sarebbe il momento di cominciare a progettare un altro modello di vita individuale e collettiva? Di tirare fuori dell’armadio l’utopia della “liberazione” che ci ha mobilitato in gioventù per liberarci da pregiudizi, da falsi bisogni, da dipendenze devastanti anche se apparentemente innocue, dall’illusione (così diffusa, anche se spesso inconsciamente, tra i “nativi digitali”) che del passato, della storia, di ciò che antichi e moderni hanno pensato, proposto e sperimentato si possa tranquillamente fare a meno?
Tra i “temi forti”, poi, in ragione della frequenza delle indicazioni espresse relativamente allo stesso oggetto d’argomentazione c’è quello che potremmo individuare nei termini di Terzo Settore,welfare e comunità.
Viene apprezzato, infatti, il ruolo fondamentale del T.S. nel risolvere i problemi della collettività. Il sociologo che lavora nel T.S. può aiutare a far riscoprire la comunità locale come fonte di ripartenza, come mutuo-aiuto e come valorizzazione del territorio e della società; oltre a valorizzare il ruolo sociale di ogni persona intesa come singolo e come parte di un tutto, percezione oggi più che mai forte visto il comune problema da superare (pandemia).
Il contributo del sociologo dovrebbe essere quello di indagare, studiare, raccogliere istanze e problemi, fotografare e ricostruire fatti e situazioni per ripristinare condizioni ottimali di welfare e di protezione dei gruppi più fragili. Da qui la sua funzione di guida e di facilitatore all’apertura verso l’esterno (e soprattutto verso gli altri), per aiutare a trasformare una “collettività” in una “comunità”. Resterebbe pertinenza del sociologo l’esaminare i cambiamenti sociali, l’individuare e mappare il disagio sociale al fine di poter realizzare dei luoghi di incontro, in cui siano previsteanche le adozioni di animali, gli orti sociali, dei percorsi didattico-formativi per generare il cambiamento; riaffermare la banca del tempo ed iniziative di solidarietà sociale per fare in modo che i giovani e le loro famiglie siano educati ad una nuova modalità di consumo di beni e servizi.
Il sociologo sembrerebbe poter offrire tanto dal punto di vista organizzativo, per la pianificazione e la programmazione a breve e lungo termine di tutte quelle azioni che ruotano intorno ai bisogni psicosociali dell’uomo di oggi.
Ultimo, ma non ci appare meno importante, lo sforzo del sociologo nel contribuire a migliorare i sistemi di governance, di individuazione delle priorità in situazioni d’emergenza e dei gruppi più fragili.
Altri temi che, pur essendo emersi tra i partecipanti alla Call-to-Action, hanno riscosso minore attenzione sono lo sviluppo professionale del sociologo e lo sviluppo tecnologico.
Riguardo a quest’ultimo alcuni partecipanti sentono che sia necessario dare impulso allo smart working anche per la professione sociologica, e sollecitare le persone ad utilizzare le tecnologie per la formazione e il lavoro, offrendo l’indispensabile supporto socio-psico-pedagogico a tutte le età.
Riguardo, invece, al tema dello sviluppo professionale il sociologo dovrebbe rivendicare il suo essere figura di raccordo tra quelle diverse professioni e quei diversi saperi utili ad ampliare la generale consapevolezza sul benessere e l’attivazione di azioni di sostegno e cura.
Sarebbero sempre più necessarie delle azioni forti e delle istituzioni oneste finalizzate alla coesione sociale e al superamento dei blocchi che vengono posti alla presenza dei sociologi in qualità di figure dirigenziali o operative nel settore pubblico.
Del tutto assenti (o quasi del tutto) sarebbero quei criteri minimi di qualità dei servizi per favorire la presenza del sociologo – questa volta – nel privato sociale. Il sociologo soffrirebbe ancora la mancanza di un’identità professionale riconosciuta, per il fatto che si è considerati degli “ibridi”. Condizione aggravata dal fatto che non esiste un ordine e un albo professionale mentre pesa la netta divisione tra sociologo accademico e sociologo libero professionista.
Interessante, infine, che proprio tra i membri non sociologi del Lab venga l’auspicio affinché il sociologo pratico possa interagire direttamente con il soggetto (o i soggetti) tramite consulto/consulenza al fine di analizzare e risolvere un habitus limitante o penalizzante, nonché al fine di risolvere e superare sovrastrutture acquisite.
Ciò è interessante perché paradossalmente nessuno dei partecipanti alla Call-to-Action – sociologi professionisti e non – è stato talmente esplicito nel far riferimento alla dimensione microsociologica così importante per approfondire e ampliare le possibilità applicative e cliniche della Sociologia. Viene da pensare, allora, al ruolo funesto giocato da certe dinamiche, istituzionali e associative, conflittuali – in particolare tra mondo accademico e mondo extra-accademico (verrebbe da dire, non senza una certa sottile ironia) – relativamente allo sviluppo della professione sociologica; dinamiche che, ovviamente, sembrano non toccare chi ha un interesse per la sociologia principalmente, se non esclusivamente, di tipo intellettuale.
Non possiamo certo affermare che chi è dentro a certe dinamiche consapevolmente contribuisca adalimentare quello che poi si rivela essere anche un suo disagio; certo è che quanto sopra giustifica lanecessità di una riflessione volta a individuare le azioni opportune per spezzare un circolo viziosoperché penalizzante soprattutto per chi desidera fare della sociologia una professione extra accademica.
L’indifferenza riguardo alla dimensione microsociologica apre, quindi, la questionedei temi assenti nelle risposte dei partecipanti alla Call-to-Action e che probabilmente potrebbero essere cruciali – accanto, indubbiamente, a quelli appena illustrati – per lo sviluppo dellaprofessione sociologica extra-accademica.
Proviamo a citarne due: a livello meso, l’imprescindibilità della costituzione e del rafforzamento di una “comunità di pari” dei sociologi professionisti; a livello macro, l’allargamento del dibattito sulla Sociologia Pubblica (Public Sociology) capace di costituire quel quadro concettuale e discorsivo ottimale per promuovere la imprescindibilità di un orientamento sociologico nella determinazione delle politiche pubbliche in ogni settore della società.
Curioso, infatti, che nessun riferimento sia emerso tra i partecipanti alla Call-to-Action riguardo alla nomina di un sociologo nel Comitato di esperti individuato per gestire la cd Fase 2 della pandemia: un riconoscimento che non è certo una consuetudine tra i responsabili politico-amministrativi italiani.