Intervista a Ludovica Scarpa

di Gianluca Piscitelli

Ludovica Scarpa

Ludovica Scarpa insegna comunicazione interpersonale allo IUAV di Venezia. Da sempre vive tra Venezia e Berlino per motivi sia familiari sia legati alla sue ricerche. Nel 1989 è stata testimone della caduta del muro, facendo esperienza che tante cose che diamo per scontate e sembrano essere naturali possono cambiare improvvisamente, che il nostro quadro di riferimento intorno a quel che è giusto e istituzionale è una costruzione sociale. Si pensi anche a quello che stiamo vivendo oggi con l’emergenza pandemica. La caduta del muro di Berlino, racconta, “è stata la fine della seconda guerra mondiale, della guerra fredda, ma anche di un certo modo di vedere le cose. La fine della soluzione di conflitti con la forza, almeno in Europa”. Per la collana OntheRoad sta per uscire un suo volume dedicato alla comunicazione interpersonale (Ludovica Scarpa, La comunicazione nel counseling. Non occorre star male per potere stare meglio, Collana On the Road, Homeless Book, Faenza 2021). Ne abbiamo approfittato per farle qualche domanda.

Gianluca Piscitelli: Volendo cominciare dalla sua biografia, viene subito da chiederle: dalla ricerca storica alla comunicazione interpersonale. Quali sono le traiettorie più significative e come si sono intrecciate costituendo la trama di un percorso professionale e di vita così ricco e vario?

Ludovica Scarpa: Sono nata nel 1955 a Venezia e faccio parte di quella generazione che ha avuto genitori che erano bambini durante la seconda guerra mondiale. Qualche anno fa è uscito, qui in Germania, un libro che descrive come le problematiche emozionali mai risolte di questa generazione di bambini durante la seconda guerra mondiale si sia poi propagata nelle generazioni successive, nei figli e nei nipoti (Sabine Bode, Die vergessene Generation, Stuttgart 2014). Quei bambini cresciuti nel conflittosono traumatizzati, hanno un altro modo di vedere la vita rispetto a chi come noi è invece cresciuto in un ambiente pacifico, relativamente senza problemi, a parte il Covid adesso e quelle crisi economiche ricorrenti che sono ben diverse da una guerra mondiale. Provengo così, come tanti, da una generazione che ha sofferto una profonda carenza di educazione emozionale e sentivo il bisogno di studiare in una direzione che mi desse uno strumento per capire il mondo. La storia dell’architettura, la storia sociale, la storia della città, è la storia di come gli esseri umani stanno al mondo, e per anni mi sono dedicata alla storia dell’architettura.

                Come ricercatrice di storia dell’architettura, mi sono poi accorta, mentre insegnavo, del malessere degli studenti che a mio parere si rispecchiava nel loro modo di usare il linguaggio. Notavo come molti di loro avessero difficoltà a discriminare tra descrizioni e giudizi. Questo genera sofferenza, perché porta a confondere tra percezioni del mondo reale e opinioni. Mi sono da allora occupata della centralità dell’esperienza di questa sofferenza, del malessere, di questo sentirsi “spaesati” – che condividevo. E ho cominciato a studiare come il linguaggio produca malessere – oppure il contrario. E’ stato ancora per caso che, venendo a fare ricerca in Germania, sono entrata in contatto con colleghi che si occupano di psicologia della comunicazione a Berlino e ad Amburgo. Mi si è così aperto un mondo. Ho preso un periodo di sabbatico per dedicarmi allo studio della psicologia della comunicazione con l’intento di portare qualcosa di nuovo, i modelli sistemici che stavo apprendendo, nell’università italiana. Questo accadeva circa vent’anni fa: parlai col mio ‘capo’ della mia intenzione di importare modelli sistemici di comunicazione interpersonale in seminari pratici per gli studenti, seminari che in quella forma allora non esistevano. Il mio percorso professionale si radica nel bisogno di capire e conoscere: all’inizio in modo “tradizionale”, cioè basato sull’autorità dei testi, per poi accorgermi che vi sono altri strumenti e approcci, modelli che si possono vivere e allenare con gli studenti. Da allora tengo questo corso focalizzato sulla comunicazione interpersonale per gli studenti. E’ un corso che amo, in cui posso condividere e allenare con i ragazzi quello che ho imparato.

GP: Interessante questo scivolare dal contesto generale a quello particolare, dal ‘macro’ al ‘micro’, dalla storia sociale, dalla storia delle città, alla tua storia, la storia di chi cerca di capire come funziona il mondo. A me sembra che nella Sua produzione sia centrale la relazione e il legame sociale, il legame significativo. Al di la del funzionamento psichico, di ciò che avviene nel mondo interiore del singolo, Lei pone una forte attenzione al legame sociale, al tenere conto dell’Altro, al ritrovare sé stessi per mezzo della relazione con l’Altro.

LS: Non si può prescindere dalla relazione con l’Altro. Come insegnano i buddisti la nostra mente produce l’illusione dell’Io convenzionale. In realtà non c’è la ‘mia’ sofferenza o la ‘tua’ sofferenza. Esiste la sofferenza degli esseri umani che hanno desideri, bisogni che si scontrano con quello che percepiscono del mondo. E quindi potremmo dire che, in realtà, non esiste l’Io e non esiste l’Altro, ma esiste il fenomeno della vita che si dispiega nel sistema di cui facciamo parte, che creiamo insieme con i nostri comportamenti comunicativi. Esiste la possibilità di darci una mano a vicenda, oppure di non farlo. Esiste la possibilità di vederci come risorse e come un reciproco arricchimento personale, gli uni per gli altri; oppure di viverci come degli ostacoli. Sono modi di porsi differenti. Sono situazioni e scelte che possiamo imparare ad osservare.

GP: Dal lavoro accademico, teorico, a quello pratico-consulenziale, nel Suo caso il counselling. In cosa consiste la capacità di applicare la conoscenza e la comprensione per la soluzione di un problema?

LS: Intanto definiamo cosa è un problema. Chi ha un “problema” di solito focalizza la sua percezione su aspetti che teme e quindi rifiuta. Quindi non è rilassato e non è aperto ad altre interpretazioni, per cui non  “vede” altri modi di vedere le cose, non vede soluzioni. Il counsellor si può mettere a disposizione di chi soffre ascoltando con radicale accettazione, ponendo poi domande aperte per poter allargare la prospettiva, per porre le situazioni in una prospettiva temporale e spaziale più larga, che dia sollievo all’io dolorante e preoccupato del suo benessere. Quando abbiamo un problema, quando siamo sofferenti, siamo doloranti e bloccatinel nostro io bisognoso e preoccupato del suo benessere. La sofferenza è sempre accompagnata da un io sulla difensiva rispetto a una realtà che rifiuta per paura di soffrire. Quindi è necessario mettere a disposizione modelli per diventare tutti in una certa misura counsellor di noi stessi. Il mio è un lavoro didattico: insegnare modelli e modi di pensare che forniscano la possibilità di essere counsellor o registi di se stessi,così che che le persone siano autonome e si accorgano delle proprie risorse.

GP: Possiamo dire che la relazione è lo ‘strumento’ per sviluppare questa autonomia?

LS: Il che vuol dire non offrire soluzioni che sono le mie ma modelli, procedure, che possano essere utili. Se, ad esempio, non funziona il modello del ‘team interno’ si potrà provare qualche altro modello. Cosicché, ognuno può trovare – con una buona ‘cassetta di attrezzi’ – il proprio modello preferito per prendersi cura di se stesso.

GP: Quanto è importante, nel Suo lavoro, la transdisciplinarietà?

LS:Le discipline sono delle convenzioni. Qualcuno, nel corso della storia, ad esempio, ha fondato la disciplina dell’urbanistica; in precedenza se ne occupavano architetti e altre figure professionali. La nostra moderna divisione in discipline è comunque storica e convenzionale. Per quanto mi riguarda cerco di essere presente, aperta agli stimoli che mi arrivano sia dalle biblioteche sia da qualsiasi altra fonte. Non ho nessun problema, quando scrivo, a citare sia fonti autorevoli sia quelle che non lo sono ritenute affatto. Anni fa, in Argentina, ho visto una bella frase su una bustina di zucchero. Mi è piaciuta e me la sono segnata, come fosse un’indicazione, un messaggio dell’universo. E questo universo è il frutto dell’insieme delle menti degli esseri umani che produce concetti, idee, modelli – e misuggerisce: “pensaci, c’è anche a questo”. Cerco di superare l’autoritarismo dei testi, per capire un mondo che non è organizzato in compartimenti stagni. Senza transdisciplinarietà, quindi, come possiamo vivere? Nella vita quotidiana siamo sempre impegnati in numerosi ruoli e facciamo riferimento a tante discipline. Il prezzo che si paga per essere eclettici è che per un vero specialista si rimane ignoranti per certi versi, mancherà sempre qualcosa; mentre per la propria ricerca personale essere eclettici aiuta. Sono transdisciplinare per natura. Leggo moltissimo, sono vorace di letture di tutti i tipi perché sono sempre alla ricerca di ogni ulteriore possibilità di capire. Per me lo scopo dello stare al mondo è cercare di capire.

GP: Capire, ma anche aiutare…

LS: Nel comprendere puoi dare una mano al prossimo. Le conoscenze devono poter essere utili fuori dai congressi e dai convegni. Il desiderio delle persone, dell’umanità, di conoscenza è sempre anche un’esperienza gioiosa: tutti sappiamo come ci si sente quando capiamo veramente qualcosa. C’è un ‘Ah! Ma è così! Finalmente ho capito!’. E quando veramente capiamo sia con la testa, sia col cuore è come se si aggiungesse un ‘balconcino’ su un altro paesaggio della nostra esistenza. La conoscenza non è fine a se stessa, non serve a passare un esame, ma ad avere strumenti utili per arrivare su quel ‘balconcino’.

GP: Gettando uno sguardo sulla crisi pandemica che stiamo vivendo, sembra che la comunicazione sia ancora considerata accessoria da chi ha responsabilità politico amministrative ma anche scientifiche. Non credo che si tratti solo dell’incapacità di utilizzare in modo sistematico i diversi mezzi di comunicazione e a individuare i target specifici a cui rivolgersi, bensì di un trend  – parafrasando il filosofo coreano Byung-Chul Han – rinvenibile nella nostra società per cui la tirannia dell’intimità psicologizza e personalizza ogni cosa. Da qui, mi sembra, lo spiccato protagonismo anche di alcuni rinomati scienziati che ha prevalso sulla responsabilità pubblica di guidare responsabilmente i cittadini nell’adozione dei comportamenti più opportuni, cercando di trovare un nuovo compromesso tra libertà e controllo. Possiamo parlare di danni, e non solo di inefficacia, di questi stili comunicativi nel tentativo di trovare una soluzione, che non è solo medico-sanitaria, alla pandemia da Covid-19?

LS: La sua domanda contiene vari temi, vari livelli di problematiche. Il rapporto cittadini-istituzioni-esperti è molto delicato e da tempo in crisi. Le persone non si fidano né delle istituzioni né degli esperti. C’è una mancanza di fiducia dilagante, c’è la pretesa che gli esperti ci diano delle risposte certe, il che è contrario alla logica della scienza, che procede per ipotesi, per tentativi e dibattiti aperti. Gli studiosi producono risultati interlocutori, per cui nel dibattito corrente, gli esperti dicono un giorno una cosa e quello successivo un’altra e il pubblico si indispettisce: “ma come? Ci diano risposte certe!”.Ma non è così che funziona la scienza. E, quindi, c’è una sommatoria di problematiche. Le persone che attendono risposte “certe” hanno bisogno di sicurezza; gli scienziati hanno bisogno di dibattito, di portare avanti le ricerche conpassi interlocutori. Certo, la situazione che stiamo vivendo è nuova e si richiedono risposte “in tempo reale”, mentre si avverte la diffidenza reciproca tra cittadini ed esperti. A questo si aggiunge una modalità comunicativa infelice, da parte dei responsabili politici; il problema di fondo, in questo caso, è la mancanza di consapevolezza di come ad esempio procedendo per divieti – invece che per inviti e richiedendo la cooperazione di tuttiin vista di obbiettivi concreti – si danneggi ancora di più il rapporto cittadini-istituzioni che è già molto leso in Italia. Sembra che i responsabili politici non se ne rendano conto, del resto la logica di divieti e sanzioni è antica. Certo non vorrei essere nei loro panni: stanno guidando il Paese in una guerra contro un nemico subdolo, invisibile. E’ veramente una gestione impervia e drammatica, penso che non abbiano nemmeno il tempo di porsi tante domande.

GP: Una certa smania di protagonismo da parte di alcuni scienziati, però, c’è stata

LS: Gli scienziati sono esseri umani: vengono invitati a dibattiti e a interviste e diventano personaggi pubblici; parlare di “smania di protagonismo” è una attribuzione che ci illude di capire un fenomeno, mentre di fatto è il sistema dei media che li mette in situazioni non ideali per dibattiti scientifici pacati. Qualsiasi essere umano, quando si sente, mettiamo, attaccato da un suo simile va sulla difensiva e quindi attacca a sua volta. Tutto ciò fa parte dell’umanità delle persone, quale che sia il loro lavoro. E se le persone non hanno avuto la fortuna di aver avuto tempo per allenarsi a modalità comunicative consapevoli, cadono in questi automatismi perché la nostra mente in questi casi va in automatico. Così anche lo scienziato migliore del mondoha un ‘sistema 1’ della mente (usando il modello di Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci) e quando si vede attaccato da un altro può perdere la pazienza e reagire a sua volta attaccando. Questo, appunto, fa parte dell’umanità di tutte le persone. Ci vuole pazienza, volontà e consapevolezza del problema per potersene occupare. E non è possibile allenarsi nel momento del bisogno: la reazione avverrà in automatico. Inoltre alla televisione o sui giornali, assistiamo a setting poco costruttivi: tutto sembra avvenire per far spettacolo. Due virologi che litigano tra loro è una cosa che fa spettacolo, certo più di un dialogo pacato. Si mette in scena dunque intrattenimento: in quei momenti, non ci stanno informando sulle loro conoscenze, non è un convegno, ma spettacolo. In TV persone che litigano e parlano contemporaneamente mettono in scena rappresentazioni per me del tutto inguardabili; ma ciò avviene per il gusto dello spettacolo. I ‘contenuti’ non c’entrano nulla. Questi spettacoli confermano che anche un vero esperto, quando viene attaccato e la sua mente va in automatico nel ‘sistema 1’, perde la possibilità di controllare le sue risposte; non si chiede “dove voglio arrivare con questa situazione?”, oppure “che cosa voglio costruire in concreto?”. Perde ogni riflessività. Tutto ciò fa parte della nostra umana vulnerabilità, per la quale potremmo coltivare un po’ di simpatia. Se la accettiamo con benevolenza, possiamo renderci conto che se una persona ci insulta o dichiara di pensarla diversamente da noi non è obbligatorio cadere nell’automatismo del difenderci attaccando.

GP: Cos’è la ‘competenza sociale’?

LS:La definisco: comunicare e comportarmi in modo coerente con i miei scopi di breve, medio e lungo periodo. In altri termini: se mi auguro di vivere in un mondo in cui siano possibili rapporti positivi e costruttivi, è coerente per me comportarmi in modo cooperativo;è coerente scegliere di avere fiducia negli altri o, almeno, nel fatto che ognuno fa minuto per minuto quel che può, dal suo punto di vista, per stare il meglio possibile o per evitare problemi. Quindi la competenza sociale è comunicare e comportarmi in modo da non essere io stessa l’ostacolo a quell’armonia che voglio ottenere. Se, infatti, vogliamo stare bene non c’è altro modo che prenderci la nostra responsabilità per comunicare consapevolmente, in modo costruttivo e cooperativo.

Perché parlo di scopi a breve, medio e lungo periodo? Perché nel breve periodo, se ad esempio fossi il dirigente di un’organizzazione, posso forse riuscire a sollecitare a lavorare di più i miei collaboratori rimbrottandoli o minacciandoli. Ma poi scopro che nel medio e lungo periodo, questi avranno paura di me e nascondono i problemi che sarebbe meglio affrontare. Nel lungo periodo, pertanto, avrò problemi molto più grossi e questo non è nei miei interessi. Certo, c’è chi potrebbe dire: ma un ladro o un assassino si comporta comunque in modo coerente perché il suo scopo è derubare o eliminare qualcuno. Quindi anche loro sarebbero socialmente competenti. In realtà, no, non è così perché nel medio e lungo periodo accettano di vivere in un mondo in cui esistono ladri e assassini – lo sanno per esperienza personale. Quindi accettano di vivere in un mondo che crea ansia perché, se sono i primi a derubare o uccidere,dovranno stare in guardia.

GP: Ne La capra canta, c’è una bellissima provocazione con la quale Lei invita a scegliere il contrario del ‘pensiero positivo’ così tanto di moda oggi da alimentare il filone della ben remunerativa produzione di letteratura dell’illusione, tra ‘leggi d’attrazione” e “chiedi-e-ti-sarà-dato”. In sostanza, Lei ci invita a costruirci un cartello da scrivania sul quale scrivere un’imprescindibile certezza: moriremo tutti. E aggiunge “consapevoli della nostra transitorietà, diventeremmo tutti più spirituali e compassionevoli, e direttamente, senza bisogno di religioni”. Oltre a riflettere sul peso che ha ancora una certa sovrastruttura, nelle sue parole è rinvenibile anche il richiamo alla materialità del corpo che non è eterno. Possiamo affermare che il corpo e la conditio-sine-qua-non della consapevolezza senza la quale non è possibile una comunicazione costruttiva e tanto meno il costruire un benessere soddisfacente per tutti?

LS: Senza un corpo che è in vita e relativamente in salute e percepisce con i sensi e riflette con la mente, come possiamo essere consapevoli o comunicare? Senza un corpo che funziona, senza delle orecchie che sentano, come faccio ad ascoltare e a comunicare? La consapevolezza del corpo può essere anche intesa come consapevolezza della nostra comune umana vulnerabilità e transitorietà. E credo che questa consapevolezza ci aiuti a coltivare apertura verso l’altro e rispetto per i suoi sforzi per stare bene, per quanto strane ci possano sembrare le sue strategie per riuscirci. Non mi viene affatto in mente la possibilità di non avere un corpo.

GP: Eppure a me sembra che per le scienze sociali, in particolare per la sociologia, il corpo sia un territorio ancora tutto da esplorare. Che ce ne facciamo di tante analisi, poi, se non teniamo in conto che il corpo è mortale, che non siamo eterni, e che nel mentre ci attardiamo a produrre studi e ricerche non riusciamo a dare effettivamente una risposta a chi potrebbe beneficiare della nostra conoscenza?

L.S: Il corpo ci presenta continuamente l’esperienza della nostra vulnerabilità: abbiamo freddo, caldo, invecchiamo, sappiamo di essere mortali – non accettando questa vulnerabilità, che ci accomuna con tutti gli altri esseri viventi nell’esperienza del dolore, non accettiamo il corpo e quindi non accettiamo la vita. Al livello del quotidiano: facciamo ricerca, seminari, lezioni o convegni erestiamo seduti per ore su sedie scomode, non rispettiamo i bisogni del corpo, non ci muoviamo abbastanza – e quindi non ci trattiamo con rispetto. Per questo nei miei seminari e nei mie gruppi cerco di fare alzare le persone e farle muovere – e se possibile ballare. Non possiamo prescindere dal corpo, fingere che sia una sorta di scatola per le nostre belle idee. Noi siamo il nostro corpo. Abbiamo bisogno di prenderci cura del corpo: come poter essere consapevoli, prendere sul serio le nostre idee, osservare i nostri pensieri, i nostri ragionamenti e non prenderci cura del nostro corpo? Non riesco a capire come potrebbe essere possibile.

GP: Nel suo ultimo libro Capirsi: istruzioni per l’uso, ma non solo in questo caso, Lei cita il Buddismo. Viene da pensare a quanto sia stato fecondo l’incontro tra la cultura occidentale e le filosofie orientali arricchendo il percorso di sviluppo della cosiddetta psicologia umanista, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso. Concetti come, insight, vengono proprio dalla tradizione orientale. Comunicazione è anche integrazione di più pratiche sociali e visioni del mondo?

LS: Il buddismo è un sostegno nella mia vita, un aiuto a stare al mondo, una filosofia pratica e praticabile. Storicamente ci sono numerosi modelli di interpretazione del mondo, oggi tutti a disposizione, che servono per comprenderci meglio e abbassare la sofferenza tipica della condizione umana. In tanti anni ho frequentato gruppi di diverso orientamento, il Buddismo non è “uno”. L’approccio sistemico, di cui fa parte anche la scuola della comunicazione di Amburgo dove ho studiato, si è ispirato in particolare al buddismo zen. Il maestro Suzuki, negli anni ’50 del secolo scorso, era in California e la Scuola di Palo Alto, con Virginia Satir, Paul Watzlawick e altri,ne seguivano gli insegnamenti.Pensiamo al concetto buddista dell’Osservatore dentro di sé, che è la mente testimone del proprio vissuto e di come la mente stessa lo crea; all’esortazione al renderci conto, grazie all’Osservatore, della nostra abitudine giudicante – valutiamo e svalutiamo, apprezziamo e disprezziamo così facilmente ciò che ci sembra un ostacolo al nostro benessere –per arrivare all’accettazione di quello che semplicemente esiste, è-come-è,è un fenomeno della vita, come lo siamo noi stessi con tutti i nostri sforzi; all’assunzione che ognuno abbia già dentro di sé gli strumenti per prendersi cura di se stesso, anche se a volte ha bisogno di aiuto per scoprirli. Tutti elementi che provengono dal buddismo.

GP: Quindi possiamo in qualche modo affermare che la comunicazione è anche integrazione di più pratiche sociali e visioni del mondo?

LS: Non riuscire a capire se stessi e gli altri è fonte di profonda disperazione, per riuscirci usiamo tutto ciò che è a disposizione nel mondo. Le menti di chi è vissuto nei millenni prima di noi, i filosofi, Buddha, i profeti, hanno pensato e prodotto modelli e concetti per cercare di gestire il fatto di essere dei viventi, e quindi vulnerabili e quindi transitori e quindi sofferenti: siamo esseri che, oltre a esistere nel mondo, interagiscono con quello che pensano che il mondo sia, e quindi mai col mondo in sé ma col “mondo pensato”, “passato” attraverso l’incontro con la nostra mente. E ‘pensarci’ vuol dire aggiungere qualcosa al mondo: interpretazioni, giudizi, valutazioni e svalutazioni, e quindi il nostro tipico rifiutare le cose. E’ molto più difficile star al mondo in modo sereno con una mente giudicante come la nostra, che non con quella, ad esempio, di un gatto. Il gatto se ha fame mangia, se ha sonno dorme, se è spaventato scappa. Non ci pensa tutto il giorno. I pensatori della storia dell’umanità, compreso Buddha, in ogni cultura si sono posti il problema di come poter stare al mondo senza danno per gli altri e per se stessi.

GP: L’Osservatore di cui ampiamente argomenta in Capirsi, invita a riflettere sulla nostra interiorità come un teatro operativo, un gioco delle parti tra una parte che osserva e una che è osservata, e rende evidente il carattere processuale e sociale del Sé. Non possiamo che essere sociali con noi stessi, prendere le distanze da sé se vogliamo comprenderci veramente e non fonderci con noi stessi; avere, cioè, un’interazione con noi stessi. In che modo un buon dialogo con noi stessi, diventa foriero di una pacifica e costruttiva convivenza con gli altri?

LS: Guardi, l’osservatore dentro di noi è un modello molto concreto. E’ fattibile e quotidiano. E’ essenziale, a mio modo di vedere,coltivare un amichevole dialogo interiore, ognuno di noi dentro di sé, e imparare a non identificarci con i nostri pensieri, giudizi e stati mentali. L’Osservatore è la parte benevola di noi che scopriamo in noi stessi, oche installiamo nel farlo, quando osserviamo con amichevole consapevolezza un’emozione oppure un pensiero che ci viene in mente e ce ne prendiamo cura, come fosse un visitatore inaspettato. Sia nell’insegnamento buddista che in quello sistemico vi sono numerosi modelli per allenarci a questo distacco fatto di accettazione amichevole di quel che è-come-è, dei fenomeni della vita, compresi i nostri pensieri ed emozioni, che sono appunto fenomeni della vita, che possiamo comprendere se siamo “identificati” nell’Osservatore, nel “Testimone”. E non nell’idea, nel giudizio o nell’emozione che osserviamo. Posso, ad esempio, parlare con la mia Ansia, e se lo faccio non sono “identica”, identificata con essa, ma lo sono con la parte di me che si occupa amorevolmente,benevolente, di me e di tutte le mie parti. L’Osservatore è la parte dentro di noi che per definizione è benevolente. E già nell’identificarmi con questa parte e non con l’Ansia, di cui mi prendo cura, mi sento meglio, la mia prospettiva si allarga. Le faccio un esempio banalissimo.

Ieri sera non sono riuscita a utilizzare il computer per fare una cosa (che in quel momento valutavo come) importante. Era tardi, non potevo chiedere aiuto a nessuno;poco pratica di internet come sono, ecco che è arrivata l’Ansia: una vecchia amica interna che non tollera che “io” non riesca a controllare simili situazioni. L’ho notata, restando identificata nell’Osservatore: “Ok, eccoti qui, cara Ansia, ma è tardi. Non possiamo occuparcene adesso. L’unica cosa da fare ora è andare a dormire. Scriviamoci su un bigliettino cosa dovremo fare domani mattina perché qualcuno ci da una mano”. Tutto questo lo può fare solo l’Osservatore, se sono identificata con questa parte benevola, che non mi giudica per la mia ignoranza riguardo a internet. In questo modo non ho mandato l’Ansia a cercare di risolvere i problemi la mattina dopo; l’Osservatore ha telefonato a chi poi mi ha dato una mano. Possiamo allenarci ad entrare e a uscire dalle nostre identificazioni con le nostre parti interne, ed essere identificati con l’Osservatore è un sollievo. Certo questo modo di procedere è più faticoso che andare in automatico, trascinati dal “sistema 1” della mente, e cioè dall’identificazione con le emozioni che di momento in momento colorano la nostra esistenza. E’ questione di allenamento. E ogni tanto possiamo lasciar perdere e andare in automatico, sapendo di farlo.

GP: Ma non è un po’ inquietante l’idea di qualcosa dentro di noi che ci osserva?

LS: Tutt’altro: non c’è nessun “qualcosa”, l’Osservatore è quella parte di noi, dentro di noi, che ci vuole bene senza condizioni. L’Osservatore èper definizione benevolente. Mentre il Super-io è il Critico interno, quello che alle volte mi dice “Ludovica dovresti prepararti un po’ meglio!”, che certo ha anch’esso il suo ruolo; l’Osservatore benevolente parla col Critico interno e dice forse: “Senti, capisco che tu critichi così per evitarci una brutta figura. Però, dimmi in termini positivi, di che cosa hai bisogno per lasciarci fare questa cosa? Che condizioni poni?” E il Critico porrà le sue condizioni. Tuttavia l’Osservatore, saggio e benevolo com’è, sa che la perfezione non è di questo mondo e glielo ricorderà.

GP: In conclusione, perché capire noi stessi e gli altri fa star bene?

L.S.:Il capire se stessi e gli altri non può essere considerato un optional. Ognuno di noi vive nel suo mondo, creato dalla sua mente. Le menti degli esseri umani, infatti, aggiungono interpretazioni e giudizi alla realtà che percepiscono (a vari livelli selezionandola in “ciò che risponde ai miei bisogni e ciò che non vi risponde”), assegnano cioè significati, interpretazioni. Viviamo così in una realtà che è fatta delle nostre aggiunte interpretative. Ma le menti non sono trasparenti le une alle altre. Io non potrò mai sapere che tipo di mondo esiste nella sua mente. E’ già impegnativo cercare di capire quello che esiste nella propria. Quindi, possiamo condividere le nostre esperienze solo comunicando, gli uni agli altri, come riusciamo a creare le nostre esperienze interpretandole. Facendolo, creiamo la qualità delle nostre esperienze e, quindi, la qualità della nostra esistenza. Non è possibilenon farlo; o meglio, è possibile vivere nella frustrazione, se non lo facciamo. Nel non riuscire a comunicare, ci sentiamo disperati e addolorati, isolati, soli e incompresi. Confusi, proprio perché non capiamo gli altri e quindi non ci possiamo fidare. Soprattutto se si tratta di persone a cui teniamo, ma non solo. Un esempio minimo: se un vicino di casa “mi guarda male”, con unosguardo cha a me sembra “cattivo”, ci rimango male e mi chiedo: “cosa è successo, cosa ho fatto? Perché mi guarda in questa maniera?” Sento disagio perché aggiungo una interpretazione a quel che vedo e non ricordo che ognuno si comporta e comunica in funzione dei propri bisogni, per cui il vicino avrà i suoi motivi, che non hanno necessariamente a che vedere con me. Quindi se non riusciamo a comunicare con consapevolezza (dentro di noi e con gli altri) ci sentiamo isolati nel nostro mondo fatto di nostre interpretazioni e giudizi;se non riusciamo a spiegarci gli uni con gli altri, possiamo finire col vederli come “nemici” e/o a prendercela perché gli altri vivono in funzione dei loro bisogni e non dei nostri, e non ci accorgiamo di quanto le nostre aspettative siano disfunzionali.

E’ nella natura delle cose infatti che gli altri vivano in funzione dei loro bisogni e non dei “miei”, per cui non ha alcun senso accusarli, quando non si adattano a fungere da comparse nella nostra vita ma vogliono essere protagonisti della loro. Se solo ci pensiamo con un attimo di distacco, vediamo che creiamo noi stessi tensione e confusione. E se riuscissimo davvero ad accorgerci che noi frequentiamo l’idea che ci siamo fatti degli altri, non “gli altri” per come si sentono dentro di loro, tanti conflitti sparirebbero. Così coltivare la benevolenza non è un optionalperché vogliamo “essere buoni”. E’, semmai, la chiave per poter stare meglio noi stessi. Credo fermamente che ci sia un modo costruttivo di condividere le esperienze e la vita, un antidoto all’abitudine automatica al dare la colpa e al lamentarsi, che è la modalità descrittiva della comunicazione non violenta: posso sempre descrivere come vedo una situazione dal mio punto di vista, come mi sento, che bisogni – frustrati o meno – mi segnalano le mie emozioni, che cosa voglio ottenere e chieder all’altro di parlarmi del suo punto di vista. Per riuscirci ho bisogno di conoscere, con l’Osservatore in me, la mia rabbia, la mia vulnerabilità, la mia tristezza e la mia gioia, ma come fenomeni della vita – che condividiamo con gli altri – gli altri che sono tanti “noi stessi” che esattamente come noi cercano di star bene.

Capirsi e capire l’altro: per una pragmatica del vivere quotidiano

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