di Marco Omizzolo
La ricerca sociale non può prescindere dal confronto sul campo coi soggetti che fanno il fatto sociale da indagare. L’oggetto della sociologia, come ci ha insegnato Ferrarotti, è il soggetto e quest’ultimo costituisce l’universo di senso da indagare in una esplorazione continua che comprende l’universo della sua complessità epistemica. Come indagare le condizioni di lavoro dei giovani nell’Italia contemporanea senza incontrare quei giovani nel concreto vivere e manifestarsi delle loro esistenze? Come individuare le evoluzioni della famiglia senza osservarle nel loro quotidiano? Come rispondere a cosa sono oggi le mafie senza seguire i processi nei vari tribunali italiani, interrogare investigatori, vittime e carnefici, sentire il puzzo del loro agire nei territori che governano più o meno informalmente e dei soldi, per riprendere Falcone, che sono uno dei grandi capitali che restituiscono loro potere e potenza? La sociologia deve riuscire a svolgere un’attività di anatomia del potere e delle relazioni a partire dalle condizioni (assolutamente complesse) che articolano il vivere dell’uomo e dell’ambiente sociale in cui è collocato.
Lo stesso vale per il fenomeno migratorio. Le migrazioni, quali fatto sociale totale, come affermava Sayad, esprimono tutta la loro ricchissima complessità sociologia nel concreto manifestarsi e coniugarsi con l’organizzazione sociale e politica che attraversano o nella quale si insediano. Per questa ragione la sociologia riesce ad esprimere la sua funzione matura nel momento in cui precipita all’interno di questa complessità fattuale e ne coglie, con una metodologia sempre interrogativa e acuta, gli aspetti multidimensionali.
Circa venti anni fa decisi di provare ad applicare l’osservazione partecipante nello studio della comunità indiana della provincia di Latina. Da allora, senza mai tradire quella metodologia ma ampliandone il senso e integrandolo con altre metodologie (sociologia visuale ad esempio), è stato un continuo cogliere aspetti nuovi o evolutivi del fenomeno, così complessi da riarticolare la conoscenza del medesimo e la capacità anche di esprimerla mediante espressioni diverse (ossia non solo accademiche). L’accademia non sempre è stata all’altezza di questa sfida e troppo spesso educa e forma ricercatori ad una metodologia che costruisce distanze verticali dal fenomeno sociale e indica perimetri formali che a volte tradiscono le aspirazioni originali delle scienze. L’uso del doping, ad esempio, da parte dei braccianti indiani per reggere i ritmi e le fatiche del “padrone” italiano, il linguaggio usato da quest’ultimo e dagli stessi migranti allo scopo di legittimare e “pedagogizzare” anche dal punto di vista lessico-culturale la complessa dimensione del lavoro sfruttato contemporaneo, la dimensione dello sfruttamento femminile, l’articolazione epistemica del caporalato quale grande strategia di costruzione e gestione del consenso sociale e di disinnesco del conflitto, sono alcuni di questi aspetti colti mediante l’assidua frequentazione del campo di ricerca. Sono aspetti, tra i vari, che solo camminando dentro i processi sociali nel concreto loro (e nostro) manifestarsi è possibile cogliere e infine restituire con la chiarezza che essi meritano.
Proprio il linguaggio costituisce una frontiera ancora tutta da esplorare. Il bravissimo Federico Faloppa, professore ordinario presso l’Università di Reading (Gran Bretagna) di Storia della lingua italiana e Sociolinguistica nel Dipartimento di Lingue moderne, rispetto al linguaggio padronale afferma: “gli stilemi linguistici in uso dei ‘padroni’ e dei caporali sono gli stessi che troviamo nelle città, sui treni, nelle stazioni di polizia, in molte delle nostre conversazioni: al/alla bracciante-migrante ci si rivolge con “tu” (ma da lui/lei si pretende il “lei”), magari chiamandolo/a con nomi italianizzati – se il suo nome è troppo difficili da pronunciare, ammesso che si voglia fare lo sforzo di ricordarlo – o con soprannomi che ne esaltino un particolare fisico o un tratto culturale distintivo, oppure con espressioni che ne mettano in luce l’acquiescenza, l’obbedienza, il rispondere all’immagine gerarchizzata che noi abbiamo di lui/lei (“è proprio un bravo lavoratore”, detto di qualcuno che lavora moltissimo senza lamentarsi mai, perché si presume che non abbia il diritto di farlo, e che debba essere grato per il carico di lavoro che gli è ‘concesso’…): un’immagine che – scriveva Albert Memmi ne Il colonizzatore e il colonizzato – a forza di essere ripetuta viene interiorizzata anche dalla persona sfruttata, che in un rapporto di forza estremamente sbilanciato ambisce a rispecchiare e ad adeguarsi a ciò che lo sfruttatore pensa di lui/lei, alle sue aspettative e ai suoi giudizi. E non si tratta solo di etichette lessicali, o di modalità pragmatiche (il “tu”), ma dell’imposizione di un intero sistema linguistico, se è vero come è vero che spesso la sola lingua usata (nei campi, nelle aziende agricole) è l’italiano – o una varietà regionale di italiano – anche se i parlanti italiani sono un’esigua minoranza. Un’imposizione che passa anche per l’interdizione a usare altre lingue, le quali – pur essendo altamente funzionali al lavoro in contesti dove le competenze in italiano dei lavoratori sono basse (e quindi pur essendo potenzialmente vantaggiose in termini di produttività) – sarebbero pur sempre codici altri per i padroni, che verrebbero così tagliati fuori dal flusso delle informazioni e dalle dinamiche di interazione e solidarietà tra i loro braccianti. Senza contare il diffuso pregiudizio che le loro lingue siano difettive, espressioni di ‘razze’ inferiori (come spiega Andrea Moro in La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo). È “la voce del padrone” quella che si deve sentire, che deve risuonare attraverso il lessico e la pragmatica, riaffermando continuamente gerarchie (anche attraverso il linguaggio non verbale: si pensi alle espressioni facciali, alla postura, alla prossemica) e rafforzando la frattura tra “in-group” e “out-group” attraverso l’imposizione dei codici. Una voce che, in ragione di quei rapporti di forza, viene spesso interiorizzata anche da chi la subisce, e vista e vissuta come l’unica possibile in quello come in altri contesti gerarchizzati, e che è certamente stata interiorizzata anche dalla società che dei sistemi di produzione padronali ha fortemente bisogno perché su essi si regge (e con essi legittima i propri livelli di consumo), e non da oggi”. Riflessioni che aprono autostrade di ricerca che devono essere, da chi ama e pratica la sociologia che ha il coraggio e la forza di scendere sul campo e consumare le suole delle proprie scarpe, seguite, indagate, perlustrate con una ottusa e qualificata insistenza.
Il quotidiano “Domani” mi ha chiesto di scrivere ad agosto alcuni articoli proprio sul tema migratorio e sullo sfruttamento del lavoro. Ho accettato perché si tratta di una sfida nella sfida. In primis quella di approfondire aspetti e fenomeni già indagati, aggiornarli, ri-definirne i contorni, sempre problematici, in modo più ordinato e chiaro. Poi perché, contrariamente ad una Italia vacanziera, questi fenomeni e processi in estate non vanno in vacanza ma si manifestano con ancora maggiore durezza e chiarezza. La sfida è dunque anche quella di mobilitare ad una riflessione generale la cittadinanza a temi che restano vivi tutto l’anno e che non possono per questo essere d’estate derubricati a fatti non prioritari per via delle intoccabili vacanze estive. I saggi perlustrano dunque la dimensione del fenomeno, senza ambizioni di esaustività, ne riportano le caratteristiche salienti e le complessità. Da anni occupandomi di questo fenomeno, sia come docente di sociopolitologia delle migrazioni presso l’Università La Sapienza di Roma sia come sociologo Eurispes, ho cercato di porre domande nuove e di trovare risposte avanzate. Il centro studi Tempi Moderni sta raccogliendo questi contributi e cerca di promuovere una riflessione non solo accademica ma culturale sempre più ampia e approfondita. Non solo i braccianti sfruttati devono prendere coscienza, secondo gli insegnamenti di Freire e di Danilo Dolci, ma anche noi cittadini “normali” dobbiamo riuscire in questa “impresa”, per sviluppare percorsi di emancipazione collettiva sempre più evoluti e complessi. Questo esperimento non so se è riuscito ma valeva la pena tentarlo.
Sono disponibili, di seguito, i link articoli sinora pubblicati su Tempi moderni:
Manjeet, un ragazzo dell’Agro Pontino che ha conquistato la libertà
https://tempi-moderni.net/2021/08/10/dal-quotidiano-domani-manjeet-un-ragazzo-dellagro-pontino-che-ha-conquistato-la-libert%C3%A0
Il caporalato e i fondi europei, tutti gli affari delle cosche
https://tempi-moderni.net/2021/08/11/dal-quotidiano-domani-il-caporalato-e-i-fondi-europei-tutti-gli-affari-delle-cosche
Lo sfruttamento dei migranti al tempo della pandemia
https://tempi-moderni.net/2021/08/12/dal-quotidiano-domani-lo-sfruttamento-dei-migranti-al-tempo-della-pandemia
La grande distribuzione alimentare e i traffici della ‘Ndrangheta
https://tempi-moderni.net/2021/08/13/dal-quotidiano-domani-la-grande-distribuzione-alimentare-e-i-traffici-della-ndrangheta
“Facciamo venire le scimmie”, ecco le intercettazioni dei padroni nei campi
https://tempi-moderni.net/2021/08/15/dal-quotidiano-domani-facciamo-venire-le-scimmie-ecco-le-intercettazioni-dei-padroni-dei-campi
“La pacchia è finita”, la storia di Soumaila Sacko ucciso a colpi di fucile
https://tempi-moderni.net/2021/08/16/dal-quotidiano-domani-la-pacchia-%C3%A8-finita-la-storia-di-soumaila-sacko-ucciso-a-colpi-di-fucile
“Storia di Gill, licenziato e picchiato per una mascherina anti Covid-19”
https://tempi-moderni.net/2021/08/16/dal-quotidiano-domani-storia-di-gill-licenziato-e-picchiato-per-una-mascherina-anti-covid-19
“Irina e le altre, le donne schiave”
https://tempi-moderni.net/2021/08/18/irina-e-le-altre-le-donne-schiave
Gli altri articoli, fino al quindicesimo, saranno pubblicati giornalmente sempre sul sito www.tempi-moderni.net