di Francesca Rossetti *

(…) é opportuno precisare che il soggetto può emergere solo perché esiste la condizione di assoggettamento. I suoi margini di manovra non derivano da un’assenza di determinazioni ma, al contrario, dalla loro molteplicità ed eterogeneità. Il soggetto emerge per il fatto che queste forze polisemiche non vanno tutte nella stessa direzione. Di conseguenza, è portato a prendere delle decisioni, a scegliere, in quello spazio di indeterminatezza che viene a crearsi in ragione di tutte le contraddizioni che lo attraversano. Spetta al sociologo comprendere meglio l’insieme dei processi socio-psichici che costituiscono tale assoggettamento e i diversi modi in cui il soggetto reagisce per cercare di affrancarsene. L’accompagnamento in questo processo di soggettivazione è uno dei compiti del sociologo clinico.

Comunque, ciò non significa che la clinica possa ridursi alla questione del trattamento o all’aiuto finalizzato a risolverei problemi individuali o collettivi. I conflitti, di per sé, non sono nefasti né distruttivi. Sono l’espressione delle contraddizioni del mondo sociale e dei meandri dello psichismo.

L’incapacità di affrontare questi conflitti è ciò che fa sorgere un problema. I metodi clinici sono costruiti per consentire al soggetto di analizzare questi conflitti, tentare delle risposte e cercare una mediazione tra queste stesse contraddizioni. Si tratta, quindi, di “avvicinarsi il più possibile all’esperienza degli attori” al fine di effettuare detta analisi e, elaborando insieme a loro delle possibili ‘risposte’, stimolare gli opportuni cambiamenti. (De Yzaguirre Garcia F. e Castillo Mendoza C.A., Per una sociologia impegnata nella realtà sociale, a cura di Piscitelli G., Homeless Book, 2022: 25-26)

Sto leggendo con grande piacere l’ultimo testo di Quaderni di Sociologia “Per una sociologia impegnata nella realtà sociale”, un testo che non si definisce un manuale, non almeno nella misura con cui generalmente si scrive un manuale, nè con lo spirito che comunemente di studia un manuale, inteso come testo operativo da apprendere acriticamente. Ritengo invece che questo testo offra molti spunti di lavoro e di riflessione e si proponga come qualcosa di vivo e vivace, pronto a offrirsi al lettore come uno strumento operativo che non limita la riflessione, ma apre a sempre nuove potenzialità. Un testo che definirei educativo, nel senso più originario del termine, cioè che e-duce, che porta in luce ed implementa, un Manuale con la “M” maiuscola, insomma.


Più mi addentro nella sociologia clinica, più mi riconosco in questa affascinante branca della sociologia che si misura al contempo con la terapia e la pedagogia, laddove la pedagogia venga acquisita con il suo significato più alto di far emergere le potenzialità del singolo, e quindi, di offrirgli la possibilità di incontrare un benessere, frutto dell’armonia profonda che si genera dall’autorealizzazione.

Un’autorealizzazione però che non può essere conchiusa nel singolo e non può avere il singolo come unico punto di riferimento. Allo stesso modo della terapia che non può essere risolutiva laddove si cerchi di curare una patologia o un disagio individuale senza tenere conto, sul piano sistemico, delle dinamiche culturali che ne stanno alla base. 

Tuttavia, nel riconoscermi profondamente nella prospettiva offerta dalla sociologia clinica non posso che esternare alcune difficoltà che devo affrontare quotidianamente nel mio lavoro sul campo, con l’aspirazione a dare il via a un dibattito costruttivo in grado, da un lato, di dare forza alla nostra identità di sociologi clinici e, dall’altra, di riflettere e, possibilmente, risolvere tali problematiche operative. 

La questione principale riguarda il termine “clinico” che trovo del tutto appropriato per quanto riguarda il suo significato, ma che, purtroppo, devo utilizzare con molta cautela perchè, legalmente parlando, il termine “terapia” e “clinica” sono termini di cui si è appropriata la medicina e, se non si é medici o psicologi, può essere passibile di ripercussioni sul piano giuridico. Come ci spiegava il Prof. Leonardo Benvenuti ai tempi della mia specializzazione in Socioterapia presso A.I.S.T. (Associazione Italiana Socioterapia, A.A. 2001-2002, ndr), senza una laurea in psicologia e l’iscrizione al relativo ordine professionale, non è possibile esercitare alcuna attività che preveda l’intervento terapeutico, pena la denuncia per abuso della professione medica. Se avessimo desiderato mettere a frutto quanto imparato avremmo potuto svolgere attività generica come sociologi professionisti. Le stesse raccomandazioni le ho ricevute anche presso altre scuole di specializzazione che ho frequentato, nel corso degli anni, per affinare gli strumenti necessari alla mia attività sul campo.

Eppure, l’approccio sociologico dovrebbe essere fondativo alla comprensione di come il singolo si rapporta alla società, poiché gran parte delle manifestazioni individuali hanno basi sociali, o meglio, hanno basi relazionali. Che cos’è, infatti, ciò che chiamiamo “mente”, se non il frutto della complessa rete rappresentazionale che il singolo intrattiene con il proprio ambiente interno (corpo) ed esterno (natura, società)? Il sociologo viene formato appositamente per leggere e comprendere il complesso sistema di relazioni che lega il singolo alla realtà, poiché la sua formazione è fondata sulla comprensione dei meccanismi di formazione del simbolico, sulla decodifica rappresentazionale, sulla comprensione dell’impatto dei media nella costruzione della identità, ecc. La formazione del sociologo è tutta improntata alla creazione di quella peculiare forma mentis che Wright Mills aveva definito come “immaginazione sociologica”, sulla capacità, cioè di riflettere su se stessi come soggetti liberi e non vincolati da tutte quelle influenze sociali che, in realtà, condizionano inconsapevolmente ogni gesto della vita quotidiana. L’immaginazione sociologica è un atteggiamento mentale che il sociologo clinico può utilizzare anche sul piano dell’intervento, accompagnando il singolo in un percorso di decodifica ambientale che sia in grado di operare un decondizionamento da comportamenti automatici e acquisiti acriticamente per riprogettare il proprio vissuto in vista di un cambiamento che risulti per lui migliorativo.

Nel divulgare il mio lavoro sul campo, trovo quindi molto frustrante, non solo il fatto di dover ricorrere all’uso di terminologie che non rappresentano completamente la mia figura professionale, ma anche il pensiero che gli ambiti di competenza a me peculiari, in quanto sociologa clinica, vengano trattati da altre figure professionali che, seppur mirabilmente formate, utilizzano prospettive diverse.

Questo non ha nulla a che vedere con la rivendicazione di una corretta “spartizione dei relativi ambiti di competenza”, ha piuttosto a che vedere con la corretta informazione.

Al di fuori del contesto accademico o professionale, il grande pubblico non ha l’opportunità di conoscere il sociologo clinico e quindi non si rivolge al sociologo clinico anche laddove gli ambiti del disagio affondino le proprie radici sui meccanismi di formazione del simbolico, e, in generale, su discrasie di tipo sociale (per l’uso del termine “discrasia” cfr. Lazzarini, 2004). Questo implica una costante opera di divulgazione e di mediazione comunicativa che non sempre viene accolta e compresa pienamente dal pubblico soprattutto se non si ha la possibilità di divulgarla liberamente!

La risposta più salomonica a tale questione sarebbe quella che auspica la piena concorsualità delle molteplici professionalità che ruotano attorno all’essere umano e alle sue relazioni, tuttavia, nella mia esperienza professionale, questa “concorsualità” è stata sempre molto difficile e controversa laddove ci si doveva occupare di contesti terapeutici. 

Per spiegarmi meglio porto ad esempio un caso in cui mi trovai coinvolta diversi anni fa. Mi venne proposta la partecipazione a un progetto di intervento terapeutico formato da diverse figure professionali nell’ambito della cura. Si trattava di progettare un intervento terapeutico rivolto ad adolescenti con disordini alimentari che univa tecniche “classiche” a tecniche “creative”. Ai fini del progetto terapeutico vennero molto più apprezzate le mie competenze nel campo della pratica Yoga (per la quale avrei comunque dovuto riportare rigorosamente allo psicoterapeuta del team il quale, tra l’altro,non aveva alcuna formazione in questa disciplina!) piuttosto che le mie competenze come sociologa clinica. Anzi, a dire il vero, l’unico contributo che mi venne richiesto in quanto sociologa fu quello di fare uno studio approfondito sullo stato dell’arte delle ricerche nel campo dei disordini alimentari! 

Naturalmente quello che ho citato è stato un caso limite e particolarmente emblematico, ma nei miei vent’anni di lavoro sul campo sono stati innumerevoli gli episodi in cui ho dovuto confrontarmi con situazioni simili. 

In contesti che coinvolgevano diverse figure pubbliche (in occasione dipatrocinii, bandi, ecc..) la mia autorevolezza derivava più dalle mie esperienze accademiche che non dal fatto di svolgere un’attività professionale nel campo della sociologia clinica!

Naturalmente questo non ha fermato la mia attività, ma anzi, mi ha spronato ad arricchire il mio curriculum di competenze in diversi settori della salute e mi ha orientato verso i privati, ai quali queste peculiarità terminologiche interessano marginalmente, poiché ciò che conta è risolvere il proprio stato di disagio! 

Tuttavia, mi piacerebbe avviare un dibattito in tal senso, coinvolgendo anche gli altri colleghi sociologi clinici, poichè, come indicato nel testo citato in apertura, la sociologia clinica nasce negli anni ’20-’30, non è certo una branca della sociologia di nuova generazione!

Mi piacerebbe che si potesse fare fronte comune per divulgare anche al grande pubblico questa disciplina, perchè gran parte di tali difficoltà nascono sicuramente dall’approccio lobbistico della medicina e di una certa cultura della scienza medica che, nel grande pubblico, sembra ammantarsi di un potere quasi “trascendente”, tuttavia, in parte nascono dal fatto che lo stesso pubblico non conosce la sociologia clinica (in generale conosce poco anche la sociologia!).

Come si potrebbe agire, fattivamente, per divulgare l’approccio sociologico alla realtà? 

Personalmente, per quanto mi riguarda, organizzo corsi di sociologia di base e di cultura del benessere, cerco cioè di facilitare la comprensione sociologica e di aiutare le persone che ne sentano la necessità a intraprendere percorsi di decodifica ambientale, di affrancamento e di decondizionamento da comportamenti automatici per accompagnarli verso una lettura più critica e consapevole della realtà, ma il mio più grande auspicio è che il presente articolo possa costituire un incipit per stimolare i colleghi sociologi clinici verso una serie di proposte operative che siano il frutto di un dibattito comune e anche di un impegno comune alla divulgazione, perché la sociologia clinica sia la sociologia di tutti e possa dare il proprio fattivo contributo alla realtà sociale.


Francesca Rossetti

Per info e contatti: francescarossetti@hotmail.com

www.francescarossetti.it

Bibliografia

De Yzaguirre Garcia F. e Castillo Mendoza C.A., Per una sociologia impegnata nella realtà sociale, a cura di Piscitelli G., Homeless Book, 2022

Lazzarini G. (2004), Discrasia: patologie di un rapido mutamento sociale, FrancoAngeli, Milano

Mills W. (2018), Immaginazione sociologica, il Saggiatore, Milano

Per un impegno della sociologia clinica alla divulgazione

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